Fotopolimerizzazione dei materiali resinosi: effetti termici

Lampade LED
I “light emitting diodes” generano luce quando si determina una differenza di potenziale fra due semiconduttori di carica opposta (diodi) che entrano in connessione tra loro. Nonostante il loro utilizzo diffuso in altri campi, sono state introdotte solamente dagli anni Novanta in campo odontoiatrico, dove ben si adattano alle esigenze richieste data la loro banda ristretta (465 nm di picco) senza l’ausilio di filtri per produrre la luce blu. Queste caratteristiche hanno determinato la loro rapida diffusione, grazie anche alla buona qualità di polimerizzazione e all’efficace attivazione del canforochinone che riescono a ottenere a parità di potenza rispetto alle altre tipologie di lampade. La lunga durata dei diodi, il basso consumo, l’assenza di ventole di raffreddamento, la scarsa produzione di calore e la loro maneggevolezza prospettano l’arrivo di innovazioni tecniche che ne potenzino le qualità e una più ampia diffusione. Le lampade LED hanno un’emivita di circa 10.000 ore. Le lampade LED di terza generazione sono state provviste di più chip che emettono più di una lunghezza d’onda per permettere la polimerizzazione di quei materiali da restauro che contengono altri fotoiniziatori oltre al canforochinone.

Comparazione in letteratura
Knezevic et al. (2002) hanno analizzato molteplici caratteristiche di queste lampade, anche sotto l’aspetto comparativo, determinandone le qualità che maggiormente influiscono sulla realizzazione di una ricostruzione ottimale. L’Autore ha ipotizzato e sperimentato lampade ideali che possano garantire una polimerizzazione profonda, pur non avendo potenze elevate. Sempre secondo lo stesso Autore, il parametro che più influisce sulla profondità di polimerizzazione e sul grado di conversione è la maggiore emissione intorno al relativo picco. Con una lampada di soli 9 mW/cmcon un picco di emissione prossimo a quello di attivazione del relativo fotoiniziatore, si riescono a ottenere valori di conversione paragonabili a lampade ben più potenti, ma con un picco non altrettanto vicino (Plasma 1370 mw/cm2). In altri tipi di lampade, il calore generato non è correlato all’output di intensità, ma al fatto che venga utilizzata o meno una luce fredda. Un’unità al plasma fornisce potenze superiori alle lampade alogene, ma gli aumenti di temperatura sono uguali o inferiori (Knezevic, 2001; Tarle, 2006). La profondità di polimerizzazione e l’intensità di quest’ultima a diverse distanze devono essere misurate rispettando gli standard internazionali di qualità, ISO 4049 e ISO 10650, ed è proprio secondo questi parametri che anche gli studi di Polydorou (2008) sono stati condotti (Figura 3).

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3. Polydorou O, Manolak A, Hellwig E, Hahn P. Evaluation of the curing depth of two translucent composite materials using a halogen and two LED curing units. Clin. Oral. Invest. 2008; 12:45-51.

Secondo l’Autore, la microdurezza di compositi tralucenti non si differenzia a 0,5 mm di profondità, sia che venga utilizzata una lampada alogena per 40 sec che una a LED per 10 e 20 sec. Per evitare il rilascio di monomeri tossici, è necessario raggiungere il più alto grado di conversione attraverso la polimerizzazione della resina. La valutazione della polimerizzazione può essere effettuata usando diversi metodi. La microdurezza (Knoop e Vickers) rappresenta un metodo indiretto per valutare il grado di conversione. Il concetto espresso è stato ripreso anche da altri Autori come Gritsch (2008) o Aravamudhan (2006) sottolineando l’importanza di conoscere la potenza della lampada utilizzata, della distanza a cui viene posta dal materiale da polimerizzare ma, soprattutto, enfatizzano l’influenza che ha la sovrapposizione dei picchi di emissione con quelli di attivazione. Quando le lampade a LED vengono usate per polimerizzare resine composite contenenti 2 fotoiniziatori, l’incremento di potenza può essere di aiuto nell’aumentare la microdurezza. Un altro aspetto da tenere in considerazione è la disomogeneità della radiazione, cui consegue una non uniforme durezza superficiale del composito. I LED hanno un fascio di emissione che può concentrarsi in zone ristrette della superficie del composito; Arikawa (2011) ha ipotizzato, a tal proposito, l’utilizzo di elementi ottici aggiuntivi con l’obiettivo di ottimizzare l’uniformità della radiazione. Se da una parte si assiste a un sensibile miglioramento delle caratteristiche meccaniche del composito, dall’altra questi elementi ottici causano un’attenuazione dell’intensità della luce dal 13,2 al 25,9%, ma il beneficio che ne consegue è notevole e compensa ampiamente tale decremento.

Effetti termici della polimerizzazione

Ci sono differenze significative nella penetrazione della luce visibile nei vari tipi di compositi; ciò può dipendere dalla dispersione e dall’assorbimento della luce da parte delle particelle di riempitivo. La reazione di polimerizzazione coinvolge la rottura dei legami C=C presenti sui monomeri dimetacrilici e la riduzione della distanza intermolecolare tra le catene polimeriche, tenute insieme da forze di attrazione di Van der Waals, di 0,3-0,4 nm. Per ogni doppio legame che si rompe vengono assorbite 146 Kca/mol e nella formazione del legame covalente vengono liberate 88 Kcal/mol, quindi questa reazione è esotermica. Insieme all’energia termica rilasciata dalla reazione di polimerizzazione stessa, il calore generato dall’unità fotopolimerizzatrice può contribuire all’insulto determinato sul complesso pulpodentinale. Fin dal 1974 Brady intuì che il calore sviluppato dai materiali da ricostruzione estetica poteva determinare danni alla polpa dentaria; infatti, individuò la correlazione che esisteva tra quota di riempitivo inorganico e conduttività termica (Brady, 1974). Le resine composite se non sono completamente polimerizzate possono influenzare la durata del restauro e condurre a irritazione pulpare; per questo diversi ricercatori hanno proposto in passato di aumentare l’intensità della fonte luminosa per incrementare le proprietà fisiche delle resine (Ozturk, 2004).

Durante la polimerizzazione vi è un aumento di temperatura a livello del materiale da restauro causato dalla reazione di polimerizzazione esotermica e dall’energia dell’unità di luce, in quanto la maggior parte del calore generato è legato alla radiazione luminosa emessa dalla lampada utilizzata (Lloyd, 1986). Il problema degli effetti nocivi del calore provocato dalle lampade fotopolimerizzanti è stato affrontato in modo diffuso e approfondito fin dai primi momenti della loro introduzione nel mercato odontoiatrico. Per analizzare l’escursione termica derivante dalla fotopolimerizzazione è stato molto utile l’utilizzo delle termocoppie, le cui tipologie e caratteristiche sono evidenziate in Tabella 3. L’incremento di temperatura dipende dai sistemi composito-lampade utilizzati; Masutani et al. (1988) hanno valutato, tramite l’uso delle termocoppie, l’incremento massimo di temperatura ottenibile con 60 sec di esposizione di 5 compositi (cilindri 8×4 mm) a 5 diverse lampade fotopolimerizzanti, e hanno riscontrato una forte variabilità di comportamento con incrementi massimi che andavano da 8 a 22 °C. A livello pulpare hanno evidenziato incrementi termici variabili da 2,9 a 5,6 °C, con lampade alogene a bassa-media potenza (320-515 mW/cm2) con un tempo di polimerizzazione di 40 sec. Se vengono utilizzate lampade più potenti come gli apparecchi al plasma per 10 sec con intensità di 1196 mW/cmsi può ottenere un incremento massimo di temperatura di 7,8+0,9 °C. Ciò ha evidenziato che l’esposizione per 60 sec determina l’incremento massimo di temperatura. Goodis et al. (1989) sono stati tra i primi a utilizzare le termocoppie per evidenziare le escursioni termiche nel dente estratto durante l’esposizione per 20 e 60 sec a diverse lampade alogene con e senza sistema di raffreddamento. L’incremento termico sulla superficie direttamente esposta alla fonte luminosa dopo 20 sec variava a seconda dello strumento da 5,1 a 24,1 °C, mentre in posizione periferica l’incremento massimo variava da 2,7 a 16,9 °C. All’interno della camera pulpare l’incremento massimo raggiunto era di 0,2-3,0 °C dopo 20 sec di esposizione e di 0,5-4,8 °C dopo 60 sec. L’incremento termico cresce all’aumentare del tempo di esposizione; nei restauri profondi (7-11mm) dei settori posteriori, dove si raccomanda la stratificazione, si arriva a un tempo totale di esposizione che va da 2 a 4 min, con possibilità di superare la temperatura massima alla quale le cellule pulpari possono rimanere vitali (Daronch, 2007). Un fattore decisivo nel ridurre l’incremento della temperatura intrapulpare è lo spessore di dentina residua, che è una barriera termica contro lo stimolo nocivo: più spessa è la dentina maggiore è la protezione per la polpa, anche se secondo alcuni Autori 1-2 mm di dentina dovrebbero essere sufficienti a proteggere la polpa. Kodonas (2009) percorrendo la stessa strada dei precedenti Autori, conferma la tendenza rilevata. A parità di condizioni, un canino superiore sano con uno stimolo di 100 °C subisce un innalzamento di temperatura pari a 9,6 °C a secco e a 2,3 °C con raffreddamento intrapulpare; in un incisivo laterale si determinano innalzamenti pari a 18,8 °C e 8,5 °C. Si evince che l’azione refrigerante della polpa svolge un ruolo primario nel mantenere costante la temperatura in seguito a shock termici e che lo spessore dei tessuti residui sia fondamentale per contrastare aumenti di temperatura indesiderati. Nello studio di Goodis (1989) la termocoppia intracamerale è separata dalla fonte luminosa da uno spessore di dentina-smalto variabile tra 3,9-4,6 mm. Il raffreddamento ottenuto posizionando una siringa aria-acqua a 1 mm dalla superficie esposta alla fonte luminosa determina una riduzione del picco termico a livello superficiale ma non a livello pulpare,

Fotopolimerizzazione dei materiali resinosi: effetti termici - Ultima modifica: 2013-03-15T12:29:57+00:00 da Redazione

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