Ricostruzione con sostituti alloplastici prima dell’inserimento degli impianti

Caratteristiche,struttura ed efficacia dei sostituiti ossei

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I materiali alloplastici sono sostituti, sintetici o naturali,
dell’osso. Vengono assemblati utilizzando materie prime facilmente disponibili, in condizioni di temperatura e pressione
blande. Fungendo da matrice per la migrazione al loro interno di cellule osteogeniche, i biomateriali garantiscono ottime proprietà di osteoconduzione, sostengono la crescita e la proliferazione cellulare e favoriscono in vitro la deposizione di matrice extracellulare mineralizzata da parte di cellule osteoblastiche.  Devono, inoltre, essere bioinerti, biocompatibili e bioattivi. La bioinerzia è la capacità di tali materiali di legarsi chimicamente
all’osso, senza dar luogo a reazioni flogistiche e/o tossiche. La biocompatibilità è la capacità di cedere componenti molecolari metabolizzabili, senza alcuna risposta flogistica. Infine, la bioattività è la capacità di formare un legame all’interfaccia con il tessuto adiacente. Tuttavia, il tempo per far avvenire tale legame, la forza, il meccanismo e lo spessore della zona differiscono per i vari materiali. Un biomateriale deve, inoltre, avere idonee proprietà meccaniche: deve, quindi, garantire una giusta stabilità meccanica per un tempo adeguato, in modo da mantenere la
struttura tridimensionale richiesta per la rigenerazione tissutale. Deve essere facilmente sterilizzabile e deve possedere adatte proprietà chimico-fisiche, che comprendono la porosità, l’idrofilia, l’area e carica superficiale. Essi sono ottenuti generalmente attraverso processi di sintesi e possono essere suddivisi in
ceramiche calcio-fosfate, carbonato di calcio, solfato di calcio, polimeri composti, biovetri e acido polilattico-poliglicolico.
Tra i materiali a base di fosfato di calcio i più utilizzati
sono il fosfato β-tricalcico, Ca3(PO4)2 (Ca/P=1.5) e l’idrossiapatite sintetica, Ca10(PO4)6(OH)2(Ca/P=1.67), che si differenziano unicamente per la diversa struttura cristallina.
Il fosfato β-tricalcico viene usato come innesto in chirurgia preprotesica maxillo-facciale, in interventi per il riempimento di cisti estese, in interventi di rialzo di seno mascellare, in chirurgia parodontale, in chirurgia implantare, in traumatologia, in ortopedia e in chirurgia della mano.
In uno studio della durata di 6 mesi, quattro pazienti sono stati sottoposti a un intervento di GRSM bilateralmente, da un lato con osso autologo e dall’altro con fosfato β-tricalcico. Dall’analisi tomografica computerizzata bi e tridimensionale, istologica e istomorfometrica,si è dimostrata una neoformazione ossea simile da entrambi i lati, in tre dei quattro pazienti.
Il fosfato di calcio si riassorbe con una velocità che varia in proporzione inversa con la misura delle particelle e con il volume del materiale e in rapporto diretto con la porosità di quest’ultimo. Tale riassorbimento si ottiene attraverso due meccanismi: soluzione-mediato e cellulo-mediato. Nel primo caso è il pH
a determinare il riassorbimento, infatti la diminuzione del pH porta a una dissoluzione dei materiali mineralizzati.
Il solfato di calcio è un altro materiale di origine sintetica, totalmente riassorbibile. In passato veniva utilizzato
il CaSO4, ma il suo riassorbimento avveniva a una velocità tale che il materiale veniva subito sostituito da connettivo e non da osso; oggi si preferisce il CaSO2 trattato termicamente, che al contrario ha una più lenta fase di riassorbimento, che favorisce
la sua sostituzione con osso. È usato con successo in chirurgia parodontale, in chirurgia endodontica, nei casi di atrofia ossea e negli interventi di rialzo del seno mascellare . In base alla sua struttura cristallina si può classificare in: solfato di calcio diidrato; solfato di calcio emiidrato o gesso di Parigi (viene calcinato a 160° C per eliminare il 60% di acqua) e in solfato di calcio anidro
(il gesso viene esposto a una fonte di calore). Il calore condiziona la forma e le dimensioni dei cristalli, l’indurimento, la densità e la solubilità del materiale, grazie alla formazione di varianti α e β-emiidrate.
La forma α dà vita a una massa molto densa e richiede una scarsa quantità di acqua, mentre la β richiede più acqua e dà vita a una massa meno densa. Prima di utilizzare il materiale bisogna eliminare le sostanze nocive in esso contenute, come magnesio, salicilati e carbonato di calcio, che possono essere causa di reazioni
infiammatorie. Le proprietà del solfato di calcio vengono condizionate dalla dimensione e dalla disposizione nello spazio delle particelle, dall’agente induttore dell’indurimento e dall’ambiente dove avviene la reazione di formazione. L’indurimento è influenzato sia dal tipo di particelle usate, α o β, sia dalla quantità di acqua impiegata, che è fondamentale per il processo di cristallizzazione, in quanto prolunga il tempo di indurimento e dà vita a un riassorbimento più lento e costante nel tempo; troppa acqua può, invece, ostacolare tali processi.
Altri fattori influenzanti sono la temperatura e la miscelazione che, se troppo energica o se prolungata per molto tempo, può portare alla distruzione dei cristalli già formati. L’indurimento avviene mediante la formazione di nuclei di aggregazione dove in seguito
verrà ad apporsi il restante materiale. È bene preparare il materiale lontano dal sito chirurgico per evitare un eventuale contatto con il sangue, che può ostacolare la formazione di questi nuclei di aggregazione, fondamentali per l’indurimento. L’andamento di tale processo è tipico, visto che si forma un fronte di riassorbimento seguito da precipitati di fosfato di calcio, importanti perché stimolano la crescita ossea. I precipitati
di fosfato di calcio si formano in conseguenza della dissoluzione del solfato di calcio, attraverso una particolare reazione chimica. Il solfato di calcio, infatti, nelle condizioni di pH dell’organismo si comporta come sale non stabile, liberando, a mano a mano che si riassorbe, un’elevata quantità di ioni calcio che, a loro volta, precipitando in presenza di fosforo, per un processo di saturazione, danno vita a particelle di fosfato di calcio che, al contrario, sono stabili alle condizioni di pH dell’organismo. Questa reazione è alla base del processo di osteoformazione, legato
all’uso di questo materiale. All’interno del biomaterialibro le vi possono essere poi sostanze con funzioni acceleranti, come il solfato di potassio al 4%, o inibenti, come le tetracicline. Si può controllare l’andamento dell’intervento per via radiografica, in virtù delle caratteristiche radiopache del materiale. Si vedrà così la progressiva formazione di nuovo osso, che sarà completa in circa tre settimane, a seconda delle dimensioni del difetto e del
grado di sanguinamento presente. È un materiale a basso costo, ma di limitata maneggevolezza, problema che però può essere superato tramite l’utilizzo di acceleratori e con l’esperienza clinica, tenendo il difetto ben asciutto.
In un’analisi istologica sulla guarigione ossea di difetti trattati con solfato di calcio nei conigli, si è ottenuto un completo riassorbimento del materiale già dopo 4 settimane, a favore della neoapposizione ossea. Si è utilizzato solfato di calcio sia in forma di cemento sia granulare, ed entrambi i tipi hanno mostrato alta
biocompatibilità, bioattività, tollerabilità, biodegradabilità e osteoconduttività. La forma in granuli potrebbe avere qualche vantaggio dal punto di vista clinico, ma c’è bisogno di ulteriori ricerche, per confermare tale ipotesi.
Da un’analisi clinica e radiografica, si è visto come il solfato di calcio, utilizzato negli interventi di GRSM, stimoli la formazione di un nuovo tessuto, conforme sia qualitativamente, che quantitativamente al posizionamento di impianti endossei. Vi è poi una relazione tra il tempo di riassorbimento del materiale e
la riduzione della sua massa durante le fasi di guarigione.
Si possono controllare tali fattori, valutando le caratteristiche del materiale al tempo del posizionamento.
Infatti il riassorbimento del materiale è ritardato e così la sua riduzione di volume è minimizzata, se il solfato di calcio viene accuratamente compattato in un ambiente il più asciutto possibile, in modo da assumere una consistenza putty. In uno studio istologico si è ulteriormente dimostrato, che il solfato di
calcio dà vita a una predicibile formazione di tessuto osseo, utile per il posizionamento degli impianti. Si è inoltre mostrato il riassorbimento completo del riempitivo dopo un periodo di guarigione di 9 mesi.
Il solfato di calcio può essere utilizzato in associazione ad altri materiali come l’osso autologo, il DFDBA, i polimeri o l’HA, potenziandone le capacità osteogeniche.
I polimeri sono molecole organiche con base monomerica,
organizzate in una struttura tridimensionale stabilizzata da forze di legami deboli. Il più utilizzato è l’HTR (Hard Tissue Replacement), strutturato in tre strati: uno profondo formato da un copolimero di PMMA, polimetilmetacrilato, che dona al materiale proprietà meccaniche, uno intermedio di PHEMA, poliidrossietilmetacrilato, che regola l’emostasi e l’adesione
e uno strato superficiale di idrossido di calcio, favorente l’osteoconduzione. Lo strato esterno va però incontro a un rapido riassorbimento, contemporaneo all’arrivo di numerose cellule infiammatorie, che non lasciano spazio all’azione osteoformatrice
degli osteoblasti.
I biovetri o vetri bioattivi sono una classe di biomateriali ceramici introdotti di recente in commercio, che presentano alcune innovative caratteristiche di comportamento biologico. Possono legarsi a tessuti leggeri e anche alle ossa. La superficie forma un piano biologicamente attivo di idrossiapatite, che fornisce
l’interfaccia di legame con i tessuti. Molti vetri silicati bioattivi sono basati su una formula chiamata “45S5” (45% in peso di SiO2 e 5:1 rapporto molare di CaO su P2O5). Vetri con basso rapporto molare di CaO su P2O5 non possono legarsi alle ossa . In uno studio istologico e istomorfometrico si è visto che usando nel GRSM un riempitivo formato da un 80-90% di vetroceramiche bioattive e un 10-20% di osso autologo, si ottiene neoformazione ossea nel giro di 6 mesi, mentre utilizzando un riempitivo costituito unicamente da particelle di BG la neoformazione
ossea avviene solo dopo 12 mesi. Si ottengono quindi migliori risultati associando le particelle di biovetro all’osso autologo.
L’acido polilattico-poliglicolico è un polimero con buone proprietà di biocompatibilità e di biodegradabilità. Il suo riassorbimento ha luogo attraverso reazioni idrolitiche, che portano alla formazione di acido lattico (C3H6O3) e di acido glicolico (C2H4O3), che a
loro volta, attraverso il ciclo di Krebs, vengono eliminati dall’organismo, sotto forma di acqua e anidride
carbonica, sostanze non tossiche per l’organismo. È possibile monitorare tale fenomeno controllando la densità, il peso molecolare e la percentuale di polimero presente, ottenendo così materiali con tempi teorici di degradazione variabili dalle 5-7 settimane ad un massimo di 2-3 anni.
È stata studiata in vitro la lisi delle micro e nanoparticelle,
prodotte dall’acido polilattico-poliglicolico. Con la tecnica dell’evaporazione del solvente, sono state preparate particelle di tre grandezze ed è stata rilevata una relazione lineare tra la percentuale di degradazione e la grandezza delle particelle esistenti: quelle più grandi andavano incontro a un processo
di riassorbimento più rapido rispetto alle più piccole. È stato inoltre dimostrato che la percentuale di degradazione del polimero è incrementata dall’aumentare della temperatura di incubazione.
I composti a base di acido polilattico (PLA) e acido poliglicolico (PGA) sono utilizzati in odontoiatria come  membrane, come materiale per sutura, come carrier per farmaci, come placche da osteosintesi e come materiali da innesto per le rigenerazione ossea. L’idrossiapatite è un biomateriale con buone doti di biocompatibilità e di bioattività. Può essere naturale (l’osso umano è formato per il 60-70% di HA microporosa, lo smalto dei denti è costituito per il 96% da HA) o può essere prodotta sinteticamente in laboratorio. É possibile classificarla in HA densa, microporosa
o macroporosa.
L’HA densa è un materiale non riassorbibile, che non mostra porosità, con una struttura cristallina molto densa. In presenza di osso si può osservare una interfaccia diretta osso-HA. Essendo inorganica, non può crescere e integrarsi con la superficie di un
impianto ed è anche molto difficile da preparare con le frese, poiché è tre volte più dura dell’osso corticale, perciò non è indicato utilizzarla in zone destinate in futuro all’inserimento di un impianto endosseo. Ha il compito di otturare uno spazio e di mantenere il contorno e il volume dell’osso ed è comunemente
usata in zone vestibolari di una cresta o di un impianto per migliorare il contorno di tessuto molle, o come materiale per aumento di cresta per supportare una protesi (Kent et al., 1983). L’idrossiapatite macroporosa presenta un’architettura porosa in
genere visibile ad occhio nudo, con un 15% o più di fori rispetto al volume. Viene prodotta in laboratorio attraverso una reazione di scambio idrotermico con CaCO3, o è possibile ricavarla naturalmente da particelle presenti nella barriera corallina. L’idrossiapatite microporosa mostra un 30% di fori rispetto al volume, oltre il 70% di pori, lasciando così una grande
parte di zona innestata disponibile per la rigenerazione
ossea. L’idrossiapatite può essere ulteriormente classificata in HA cristallina o amorfa. L’HA cristallina è più resistente alla frattura rispetto alla forma amorfa. I materiali da innesto a struttura cristallina si differenziano a seconda dell’origine del prodotto. Sono auspicabili cristalli piccoli come quelli presenti nell’osso normale, anche perché un aumento dell’area superficiale dei cristalli può migliorare le interazioni all’interfaccia con il tessuto osseo ed aumentare le potenzialità del materiale di creare un legame con il tessuto osseo. È il diverso trattamento chimico o termico a delineare la forma del cristallo; infatti il trattamento con calore (oltre 1000°C) porta a una crescita del cristallo che, sebbene non modifichi la struttura di base, può alterare
le caratteristiche di superficie. In uno studio in vitro condotto dal gruppo di ricerca di Tetè et al. del 2008, in un campione di idrossiapatite sintetica sono state coltivate delle cellule staminali prelevate dal follicolo dentario umano. Le analisi a microscopia ottica ed elettronica sono state eseguite dopo 1 e 6 settimane ed è emerso, dalla prima, la colonizzazione del biomateriale da parte
di cellule di forma poligonale. La microscopia elettronica ha, invece, fatto emergere la deposizione delle prime fibre della matrice extracellulare e la colonizzazione tridimensionale del biomateriale.
In uno studio sperimentale su animali è stata esaminata l’efficacia dell’idrossiapatite porosa non riassorbibile come materiale da innesto per il GRSM, con simultaneo posizionamento degli impianti. Il risultalibro to è un maggior contatto tra osso e impianto nei casi in cui si è utilizzata l’HA e nei casi in cui si è utilizzato osso autologo, proveniente dalla midollare della cresta
iliaca, rispetto ai casi in cui non si è adoperato alcun tipo di materiale. Non ci sono poi significative differenze tra HA e osso autologo riguardo al contatto osso-impianti. Comunque i risultati variano in modo esteso e fin quando permane tale situazione l’HA da sola, per interventi di rialzo del seno mascellare, dovrebbe essere usata con discrezione.
Oggi spesso l’idrossiapatite viene usata mista ad osso autologo o allogenico in varie proporzioni. Un’analisi clinica, istologica ed istometrica sull’uso dell’osso autologo unito a HA porosa, come materiale da innesto nel GRSM nelle scimmie, ha rilevato un aumento della formazione e della mineralizzazione dell’osso a contatto con l’impianto. È stato inoltre dimostrato che il ritardato
posizionamento dell’impianto migliora l’intervento di rialzo del seno mascellare.
Dai risultati istomorfometrici di 36 interventi di GRSM, si è ottenuto a 6 mesi un aumento del volume osseo del 16,38%, del 19,30% e dell’11,30%, a seconda se erano stati utilizzati, rispettivamente come innesti, la sola HA o HA porosa in unione con osso autologo prelevato dalla cresta iliaca, o HA con osso autologo intraorale. Si è notato inoltre, da campioni prelevati dopo 19 e 36 mesi, un aumento del volume osseo all’aumentare del periodo di guarigione.
Anche l’HA densa può andare incontro a riassorbimento in presenza di infezione o di un abbassamento di pH. Il riassorbimento cellulo-mediato segue il processo di fagocitosi mediato dalle cellule, che circondano il materiale da innesto. Alcuni studi hanno evidenziato il ruolo degli osteoblasti in questo processo e hanno inoltre suggerito che il riassorbimento cellulo-mediato porti all’attivazione della proteina chinasi C, dell’endocitosi e della dissoluzione intracellulare dei materiali a base di fosfato di calcio, che quindi aumenta la concentrazione
intracellulare di calcio, che a sua volta attiva una via calcio-dipendente la quale porta a una risposta mitogenica.
In un recente studio condotto su modello animale è stato sperimentato uno scaffold sintetico a base diidrossiapatite arricchita con magnesio e collagene. In tale lavoro è stato inoltre confrontato il processo rigenerativo a 45 e a 90 giorni dall’intervento di grande rialzo di seno mascellare. Lo scaffold è stato ingegnerizzato attraverso l’impiego di cellule mesenchimali
di liquido amniotico di origine ovina. Le analisi istologiche,
immunoistochimiche e morfometriche hanno dimostrato l’elevata biocompatibilità del biomateriale, la sua capacità di essere riassorbito e i migliorati effetti osteoinduttivi, grazie alla presenza di cellule staminali.

Fonte: RIABILITAZIONI IMPLANTOPROTESICHE
E CHIRURGIA MINIMAMENTE INVASIVA di Enrico Gherlone

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Ricostruzione con sostituti alloplastici prima dell’inserimento degli impianti - Ultima modifica: 2015-08-20T08:12:46+00:00 da redazione

1 commento

  1. […] coniugassero performance elevate e resa estetica brillante senza dimenticare, per ovvi motivi, la biocompatibilità. Anzi, se possibile, un nuovo materiale dovrebbe superare gli altri prodotti anche dal punto di […]