Il “paziente speciale” in odontoiatria richiede al professionista operatore tempi e modalità di intervento differenti da quelli utilizzati nella pratica professionale quotidiana. Questo perché la persona da curare si trova in una condizione intellettiva e/o sensoriale e/o fisica tale da ridurne anche drasticamente la propria autonomia e capacità di collaborazione. Ognuno di noi può diventare, anche solo transitoriamente, un paziente speciale, a seguito di un trauma, un intervento chirurgico, una malattia che insorge, una terapia farmacologica, oppure solo per gli effetti sul nostro organismo dell’età che avanza.
Abbiamo approfondito tale tematica con Francesco Occipite Di Prisco, che ha coordinato il Gruppo odontoiatria speciale delle “Raccomandazioni cliniche in odontostomatologia” edizione 2017, documento emanato dal Ministero della Salute.
Quali specifiche tipologie di pazienti speciali vengono prese in considerazione dalle “Raccomandazioni cliniche in odontostomatologia”?
Il documento, sulla base della capacità di collaborazione e dell’autonomia del soggetto, ha suddiviso i pazienti speciali in quattro gruppi. Il primo riguarda le persone collaboranti e autonome, ma in condizioni di salute che necessitano precauzioni da porre in atto. La tempistica di lavoro può essere la stessa, ma l’organizzazione di alcune tipologie di intervento a volte richiede uno spazio e una equipe attrezzata al trattamento delle possibili complicanze. È il caso di gravi dismetabolismi, cardiopatie, patologie respiratorie e della circolazione sanguigna, allergie, di tutte quelle affezioni che diminuiscono la capacità di resistenza del fisico alle conseguenze delle terapie.
Il secondo gruppo vede la presenza di persone autonome, ma scarsamente collaboranti. È il caso di pazienti odontofobici, dei cosiddetti “bambini difficili”. Condizione che può impegnare l’equipe operatoria nelle sue capacità psicologiche, può richiedere ausili farmacologici, il ricorso a tecniche di sedazione cosciente, di ipnosi.
Il terzo gruppo è costituito dalle persone non autonome, sia collaboranti che scarsamente collaboranti. Sono coloro che non possono badare da sole alla salute della propria bocca e che dipendono da un caregiver. Si è voluto evidenziare questo gruppo poiché, anche se a volte l’operatività alla poltrona non ha significative differenze, nella realizzazione di un piano di prevenzione personalizzato e nella valutazione delle soluzioni terapeutiche diventa fondamentale la formazione da effettuare ai caregiver del paziente e il controllo del mondo in cui questo è inserito: famiglia, comunità, casa-famiglia, ospedale. Il quarto gruppo è costituito dai pazienti “non collaboranti”. Sono persone diversamente abili con condizioni psichiche e/o fisiche che non consentono in condizioni di veglia di poter operare nella cavità orale. A volte non consentono neanche l’esecuzione di una prima visita. In questo gruppo rientrano forme di grave autismo, psicosi, schizofrenia, ma anche forme spastiche con presenza di movimenti non controllati, scosse tonico-cloniche. Questi pazienti per l’effettuazione delle cure necessitano di sedazione profonda o narcosi. Nelle raccomandazioni è stato dato maggiore spazio alle problematiche del terzo e quarto gruppo.
Come deve essere approntata la prima visita?
La prima visita deve consentirci di comprendere il grado di autonomia e collaborazione del paziente, lo stato di salute generale e il contesto sociale in cui svolge la propria vita. È necessario redigere una cartella clinica; per la fragilità sanitaria che accompagna tali pazienti questa deve consentirci di avere in evidenza i farmaci che il paziente usa, eventuali patologie associate, le specifiche condizioni di vita, e ciò per consentirci di monitorare il percorso di salute che andiamo a proporre. È necessario ascoltare i familiari e/o i caregiver e capire chi ha titolo a fornire il consenso informato alle cure.
Ritiene che troppo di sovente si tenda a definire non collaborante un paziente che invece, con le dovute modalità di approccio e competenze professionali, potrebbe essere gestito in tutta sicurezza?
Troppi pazienti definiti non collaboranti sono solo persone che richiedono uno spazio, un tempo, una preparazione professionale e una equipe di lavoro capace di interagire e superare gli ostacoli, vorrei dire che richiedono semplicemente un po’ di affetto e di comprensione in più.
È opportuno conseguire una preparazione specifica anche per acquisire una capacità di “gestione psicologica” del paziente, il quale va attentamente monitorato poiché nel tempo può modificare il suo grado di collaborazione e/o autonomia.
A proposito di compliance tra odontoiatra e paziente speciale cosa possiamo dire?
Più che di compliance parlerei di empatia dell’odontoiatra, la necessità di sviluppare la capacità di “incontrare” il paziente, saperlo ascoltare, capire, essergli vicino. Spesso un diversamente abile, un bambino difficile, necessita più di una carezza, un abbraccio, un sorriso, un bacio, che di parole.
Quando bisogna ricorrere alla narcosi o alla sedazione profonda?
Quando abbiamo la necessità di proteggere il paziente dalla sua incapacità a collaborare. Quando una persona per motivi psichici o fisici non è nelle condizioni di poter mantenere la bocca aperta, rimanendo ferma per un tempo adeguatamente lungo e in relazione alle terapie di cui necessita, la narcosi o la sedazione profonda si rendono necessarie.
Ovviamente non bisogna abusare di queste metodiche. Nella mia pratica ospedaliera il paziente non collaborante viene controllato in media ogni quattro mesi, vengono formati, con l’aiuto dell’igienista dentale, familiari e caregiver a effettuare, nelle forme possibili per il paziente, pratiche di igiene orale quotidiana, e a porre in atto le necessarie attenzioni di igiene alimentare. Il paziente viene controllato in poltrona e quando non è possibile anche in piedi nella stanza. Generalmente, con il tempo e con amore, anche i pazienti più difficili si seggono e si lasciano visitare. Con questa frequenza di controllo le lesioni dentali iniziali in pochi secondi si possono “medicare”, si può effettuare una seduta di igiene professionale, anche per dare ulteriori indicazioni di assistenza ai familiari. In media, se necessario, ogni quattro anni il paziente effettua un trattamento completo del cavo orale in narcosi.
Vuole delinearci le modalità di esecuzione delle diverse tipologie di cura per tali pazienti?
Sostanzialmente i trattamenti sono quelli descritti per ogni individuo. È il piano di lavoro che ha delle diversità. Spesso nella pratica quotidiana di studio dopo la visita si realizza un piano di lavoro che passa per sedute di igiene, sedute per l’eliminazione di siti infetti dentali e parodontali, altre per il restauro di elementi dentari.
Una seduta in narcosi, soprattutto nel caso di pazienti che da anni non sono stati seguiti e/o trattati, può durare anche due, tre ore. Abbiamo bisogno di completare il nostro piano di cura tutto in una seduta. Dobbiamo affrontare con la bocca asciutta e senza sangue prima le terapie endodontiche e i restauri dentali, sigillare solchi e fossette, effettuare le cure parodontali per terminare con eventuali estrazioni dentarie. Se abbiamo avuto esperienza di grave difficoltà a vedere il paziente in poltrona va valutata la possibilità di usare suture riassorbibili.
Il nostro obiettivo primario è creare le condizioni per una buona salute del cavo orale evitando un percorso che porta alla perdita di elementi dentari. La correzione di malocclusioni e la riabilitazione protesica passano per una verifica della stabilizzazione di pratiche quotidiane di igiene orale e alimentare del paziente. La decisione di effettuare tali interventi viene presa insieme al paziente e a chi lo assiste in un secondo tempo.
A suo parere quali dovrebbero essere le corrette politiche sanitarie per agevolare un adeguato percorso di cura dei pazienti speciali?
Il paziente speciale dovrebbe avere percorsi facilitati sia nella pratica privata che pubblica. Se non autonomo e non collaborante le sue necessità non sono facilmente gestibili e risolvibili. Il non comprendere e/o comunicare di molti di questi pazienti fa sì che un “incidente” capitato nella bocca si scopra solo alla visita di controllo: per questi motivi va effettuata con maggiore frequenza associando alla stessa una igiene professionale del cavo orale. È necessaria una formazione di odontoiatri e igienisti dentali tale da spostare l’attenzione, troppo spesso rivolta solo alla prestazione, sulla persona che si ha di fronte, sulla capacità di formulare un piano di prevenzione individuale che sappia tener conto anche del contesto in cui vive il paziente (famiglia, comunità, eccetera).
Per i non collaboranti “veri” gravi vanno creati percorsi interdisciplinari, utilizzando day surgery polispecialistiche. Le stesse difficoltà che ha un odontoiatra a curare una persona affetta da forme gravi di autismo le ha un ginecologo, un otorino, un altro chirurgo.
Vanno creati, quindi, percorsi dedicati per cui con un unico accesso di preospedalizzazione si eseguono visite ed esami per l’indicazione all’anestesia generale, e con un secondo accesso in narcosi l’odontoiatra cura la bocca e gli altri specialisti fanno i controlli e gli interventi necessari. Così facendo si migliora l’assistenza riducendo la spesa e le difficoltà per gli assistiti.
Per fare odontoiatria in narcosi in una sala operatoria già esistente basta acquistare un riunito a carrello del costo di 3-4.000 euro, usando il lettino operatorio e la scialitica già esistenti. Materiali di consumo e strumentario si prendono dall’ambulatorio odontoiatrico più vicino nella giornata della seduta operatoria.
In ogni azienda sanitaria territoriale dovrebbe esserci un servizio del genere, ma altresì le cliniche private potrebbero attivarlo. Un libero professionista anche con l’aiuto delle associazioni di categoria si può offrire di collaborare a servizi sia pubblici che privati volti alla cura di tale categoria di pazienti.
Vincenzo Marra