I bifosfonati costituiscono una classe di molecole farmacologiche che trova impiego in una serie di condizioni patologiche che interessano direttamente il tessuto osseo – osteoporosi, morbo di Paget, osteogenesi imperfetta – o nel controllo dell’attività osteoclastica derivanti da patologie tumorali quali, ad esempio, il mieloma multiplo, o anche in caso di metastasi ossee. Il meccanismo d’azione rispetto agli osteoclasti non è ancora del tutto chiaro, ma dal punto metabolico si osserva un’interferenza con il riassorbimento della matrice ossea.
Questi farmaci presentano un forte interesse odontoiatrico, dal momento che tra le complicanze possibili contemplano l’osteonecrosi dei mascellari (bisphosphonate-related osteonecrosis of the jaw, BRONJ) a seguito di interventi di chirurgia orale. Nel 2014 l’American Association of Oral and Maxillofacial Surgeons, osservando come anche altri farmaci ad effetto analogo (ad esempio il denosunab) possano essere correlati alla patologia, hanno proposto la nomenclatura di medication-related osteonecrosis of the jaw (MRONJ), osteonecrosi dei mascellari da farmaci. Tra i criteri diagnostici di tale grave condizione si ritrova l’esposizione del tessuto osseo per un periodo di almeno 8 settimane.
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Questa temibile sequela, oggigiorno, costituisce fortunatamente un’eventualità rara, da una parte a causa della diffusione dei bisfofonati a somministrazione orale a scapito di quelli per via endovenosa o intramuscolare, dall’altra proprio grazie all’accresciuta consapevolezza degli odontoiatri. Sono oggi infatti disponibili protocolli affidabili che prevedono la copertura con antibiotici, attivi sia su batteri aerobi che su anaerobi, da somministrare nel periodo a cavallo dell’intervento chirurgico.
Nonostante queste premesse e mettendo anche in atto misure preventive, l’osteonecrosi può talvolta manifestarsi comunque: è pertanto fondamentale che, dopo l’inquadramento della fattispecie clinica e della relativa gravità, l’odontoiatra possa approcciarla clinicamente, eventualmente in collaborazione con una figura specialistica (chirurgo orale, chirurgo maxillo-facciale). In letteratura non si ritrova un approccio standardizzato, anzi si assiste ad un intenso dibattito fra trattamento conservativo e terapia chirurgica radicale. Nel complesso, si può affermare che un’approccio clinico conservativo – che consiste in somministrazione topica di clorexidina allo 0.12%, terapia antibiotica sistemica, e leggero curettage del sito – possa essere sufficiente in casi di gravità 1, sostanzialmente asintomatici. Tuttavia altri fattori locali, oltre alla già citata esposizione ossea, possono determinare esiti sfavorevoli. Non è poi infrequente osservare forme cliniche di maggiore gravità (grado 2 e 3), che richiedono pertanto un approccio più indaginoso. Le metodiche chirurgiche applicabili variano dalla resezione ossea marginale (con mantenimento del profilo osseo) a quella segmentale (asportazione di un intero moncone) qualora sia colpita la mandibola e maxillectomie parziali o totale nel caso del mascellare superiore.