Estrarre o conservare l’elemento dentario? Il ruolo della chirurgia endodontica

Extracting or preserving the dental element? The role of endodontic surgery

Quando andiamo a comparare i due tipi
di riabilitazione possibili di un elemento dentale compromesso, ovvero quella sul dente naturale e quella implantare, è determinante utilizzare i medesimi parametri per ottenere la corretta valutazione di cosa sia meglio
per il paziente.

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Dopo un lungo periodo di oblio, dove sembrava essere patrimonio di un modesto gruppo di cultori, la chirurgia endodontica è tornata a essere oggetto di interesse da parte di una più ampia platea di operatori. Nulla infatti si rispecchia più nel concetto di “odontoiatria micro invasiva” dell’idea di poter salvare denti altrimenti destinati, come è avvenuto troppo spesso in un recente passato, a essere sostituiti precocemente da impianti osteointegrati. La chirurgia endodontica permette, infatti, di poter elevare la prognosi degli elementi con problematiche endodontiche a livelli molto prossimi al 100%.  Questo articolo si divide in due parti: nella prima, pubblicata in questo numero, si prenderanno in esame gli aspetti prognostici sia del recupero del dente compromesso che quelle della terapia implantare. Inoltre, si valuteranno i criteri clinici per il recupero dell’elemento compromesso e si discuterà la funzione della chirurgia endodontica come extrema ratio per il recupero dell’elemento dentario. Negli ultimi vent’anni la chirurgia endodontica si è evoluta in modo drammatico, grazie all’avvento degli inserti ultrasonici, della microscopia e dei nuovi materiali. Recentemente poi, l’introduzione nella pratica quotidiana della diagnostica radiologica 3D ha consentito incredibili miglioramenti sia nella formulazione della diagnosi sia nella pianificazione pre-chirurgica. Nella seconda parte dell’articolo verranno esaminate e discusse tutte queste novità che oggi rendono altamente predicibile questo tipo di terapia per il recupero degli elementi dentari compromessi, nel pieno rispetto della biologia e dell’etica.

A larger number of clinicians has now started again feeling interested in Endodontic Surgery after many years of almost complete indifference, except for few operators. The notion “microinvasive dentistry” can no better be explained than aiming at saving teeth that would otherwise be extracted and replaced too early by osseointegrated implants, as very often happened.
The endodontic surgery makes the prognosis of elements with serious endodontic problems rise to almost 100%.
This work has been divided in two parts: the first one, published in this issue, will deal both with the recovery of compromised elements and with the implantation treatment and their relevant prognosis aspects. All clinical criteria will be assessed to recover the compromised tooth and the function of endodontic surgery will be illustrated as a last resort to recover the dental element.
In the last 20 years, Endodontic Surgery has dramatically developed thanks to the introduction of ultrasonic inserts, of operative microscopes and new materials. Recently, the introduction of 3D diagnostics in daily practice has allowed extraordinary progress both in diagnosis and in presurgical planning.
The second part of this work will show and assess all these new technologies that make now this kind of treatment predictable in recovering compromised dental elements, in compliance with biology and ethics.

Quali indicazioni ha la chirurgia endodontica nella pratica clinica quotidiana dell’odontoiatria del secondo decennio del XXI secolo? Domanda complessa e al contempo di facile soluzione, qualora la si voglia inserita in un contesto di comprensione generale degli scopi della moderna odontoiatria. Il recupero di un elemento dentario, quando possibile, rappresenta la massima espressione dell’odontoiatria. Si parla tanto di “odontoiatria micro invasiva”, ma come si può conciliare questo concetto con la sostituzione implantare di un elemento recuperabile funzionalmente?

Più dettagliatamente, perché in uno studio dentistico l’odontoiatra che si affanna a ridurre al massimo la rimozione di tessuto dentale nell’ambito della terapia conservativa rinuncia facilmente a tutto il tessuto dentale per inserire un impianto al posto del dente, compromesso ma ampiamente recuperabile? Lo stesso Per-Ingvar Brånemark, che l’implantologia ha contribuito a svilupparla, sosteneva che l’impianto non sostituisce un dente, ma un dente mancante. Dunque siamo noi che dobbiamo stabilire quando il dente “presente” è destinato a diventare “un dente mancante”. E questa scelta deve basarsi su criteri rigorosamente standardizzati, non sulla mera preferenza dell’operatore o sulla sua capacità di eseguire un tipo di terapia piuttosto che un altro. In questo senso, la chirurgia endodontica moderna rappresenta un’ulteriore freccia all’arco della conservazione dell’elemento dentario. Questo per diversi motivi, che andremo a esaminare.

Mantenere o sostituire? Quale soluzione ha la prognosi migliore?

In un recente passato si è assistito a una sorta di “rovesciamento della realtà”, scandito da espressioni quali “un impianto è meglio di un dente” oppure “l’impianto è il miglior pilastro”. Partendo da queste affermazioni, molti sono stati i lavori che hanno contribuito a confutare questo errore. L’affermazione che un impianto sia meglio di un dente nasce da una serie di sbagli, prima di tutto metodologici. Molti studi relativi alla validità degli impianti, ad esempio, sono stati condotti seguendo le indicazioni di Smith e Zarb1. In questi lavori, dunque, non sono stati inclusi nella valutazione finale i cosiddetti “early implant failures”, ovvero i fallimenti implantari avvenuti nell’immediato periodo post-chirurgico (Figure 1a-1c).

1a. Impianti inseriti con tecnica guidata (tempo zero)
1a. Impianti inseriti con tecnica guidata (tempo zero)
1b. Perdita d’osso successiva alla perdita precoce degli impianti rispettivamente a 32 e 35 giorni
1b. Perdita d’osso successiva alla perdita precoce degli impianti rispettivamente a 32 e 35 giorni
1c. Inserimento di due nuovi impianti dopo guarigione ossea
1c. Inserimento di due nuovi impianti dopo guarigione ossea

Secondo Morris e Ochi2 questo dato, qualora venisse incluso nelle ricerche, farebbe diminuire il successo implantare rispettivamente del 5,8% nei settori posteriori della mandibola e del 10,3% per i mascellari parzialmente o totalmente edentuli. Si deve poi rilevare come una parte della letteratura scientifica che enfatizza il “successo implantare” deriva da lavori supportati dalle ditte produttrici di impianti e fortemente a rischio di “bias”. Come riportato infatti da Popelut e colleghi3, nel 63% dei lavori sponsorizzati gli autori si sono “dimenticati” di citare la provenienza delle sponsorizzazioni e il 66% di essi è fortemente influenzato da “bias”. Inoltre, i risultati prodotti nei trial supportati da sponsorizzazioni sconosciute o aziendali hanno rilevato una percentuale di fallimenti inferiore a quella riportata da studi analoghi non sponsorizzati. Questi dati portano a ipotizzare che il reale impatto dei fallimenti implantari sulla popolazione generale sia in realtà assai più elevato e dunque che il 95% di “successo” che spesso viene ottimisticamente riportato sia drasticamente da rivalutare4.

Al netto di queste considerazioni, le conclusioni a cui sono giunti gli autori dei lavori di comparazione è che non ci siano differenze prognostiche tra il mantenimento dell’elemento naturale e la sua sostituzione implantare5 ma, come indicato da Iqbal e Kim6, mentre per la valutazione dei risultati relativi al mantenimento degli elementi naturali vengono applicati i criteri più rigidi, nella maggior parte degli articoli relativi agli impianti si utilizza il criterio di “sopravvivenza implantare” piuttosto che quello legato a una più attenta analisi del reale stato di benessere degli stessi. Tutto ciò in contrasto con i chiari criteri valutativi che prevedono come “fisiologica” una perdita di osso perimplantare di 1,2-1,5 mm nel primo anno e come patologica la perdita di osso, sempre nello stesso periodo, con profondità uguale o maggiore a 2,5 mm7 (Figure 2a-2b).

2a. Impianto con perimplantite in fase attiva
2a. Impianto con perimplantite in fase attiva
2b. Visione clinica durante il tentativo di riparazione chirurgica (Courtesy dott. Roberto Ghiretti, Porto Mantovano - MN)
2b. Visione clinica durante il tentativo di riparazione chirurgica
(Courtesy dott. Roberto Ghiretti, Porto Mantovano – MN)

Anche i criteri clinici di valutazione del sanguinamento e del sondaggio perimplantare, accompagnati dalla valutazione radiografica della perdita ossea, previsti da Heitz-Mayfield nel 20088, di solito non vengono applicati negli studi. Come evidenziato da Zitzmann&Berglundh9, nella maggior parte degli studi relativi al “successo implantare” non si sono presi in esame i criteri di valutazione clinica, non sottoponendo i pazienti ad alcun sondaggio e affidandosi, il più delle volte, a imprecise valutazioni radiografiche basate sulle ortopantomografie. Secondo questi autori, non meno del 28% di pazienti, dopo un anno dall’inserimento implantare, presenta invece segni e sintomi riferibili a una perimplantite. A questo dato, di per se già poco favorevole, si deve aggiungere una maggior frequenza di complicanze di natura strutturale che affliggono il complesso implanto-protesico, quali fratture implantari (Figure3a-3c), perdite o fratture della vite (Figure 4a-4b) o dell’abutment, fratture della corona, distacchi di ceramica e decementazioni di corone in caso di tecniche che prevedano la cementazione. Secondo Pjetursson e colleghi, queste complicanze, dalle più lievi alle più gravi, accadono in una percentuale attorno al 39% dei casi10.

Una volta evidente questo, e tornando indietro sui nostri passi, si può comprendere che quando si vanno a comparare i due tipi di riabilitazione, ovvero quella sul dente naturale e quella implantare, si dovrebbero utilizzare gli stessi parametri per ottenere una corretta valutazione di cosa sia meglio per il paziente. O si sceglie di valutare entrambe le modalità di riabilitazione secondo una serie di tre criteri (successo, sopravvivenza e fallimento) oppure semplicemente si deve applicare il concetto “sopravvivenza/fallimento”. Se utilizziamo questo secondo metodo binario di valutazione, la terapia endodontica è assolutamente la migliore. Salehrabi e Rotstein11 hanno esaminato, attraverso gli archivi di una società assicurativa, circa un milione e mezzo di casi trattati endodonticamente e hanno rilevato che dopo 8 anni il 96% dei casi era “sopravvivente”, lo 0,4 aveva richiesto un ritrattamento endodontico, lo 0,6 un trattamento endodontico chirurgico e solo il 2,9% degli elementi era stato estratto. La maggior parte delle estrazioni, inoltre, era avvenuta nei primi tre anni dal trattamento endodontico e a carico di elementi che non avevano ricevuto una corona come modalità di riabilitazione coronale. In uno dei rari studi in cui si è effettuata una comparazione clinica tra le due modalità riabilitative, Doyle e colleghi12 dell’università del Minnesota hanno evidenziato che i fallimenti, dopo 7-9 anni, sono stati il 6% per entrambi i gruppi, mentre le complicanze sono state rilevate nel 4% dei “denti naturali” e nel 18% degli “impianti”. Dobbiamo poi sottolineare come sia più predicibile, oggi, recuperare un problema endodontico attraverso un ritrattamento o una chirurgia endodontica rispetto al trattamento, chirurgico o non chirurgico, di una perimplantite.

4a. Rx che mostra la frattura della vite di connessione dell’impianto
4a. Rx che mostra la frattura della vite di connessione dell’impianto
4b. La vite fratturata (Courtesy dott. Roberto Ghiretti, Porto Mantovano - MN)
4b. La vite fratturata
(Courtesy dott. Roberto Ghiretti, Porto Mantovano – MN)

Possiamo dunque affermare che le percentuali di valutazione dello “stato di salute” degli impianti variano fortemente in base al metodo di riferimento che viene scelto. Brocard e colleghi13 hanno valutato un gruppo di 1022 impianti per sette anni: se si prendeva come riferimento la “sopravvivenza” la percentuale era cumulativamente del 92,2%, ma questa scendeva all’84,3% quando la valutazione avveniva utilizzando i parametri del “successo”. Il dato riportato da Romeo e colleghi14 relativamente all’impianto in sostituzione del dente singolo, dove si passa dal 95,6% (sopravvivenza) al 75,6% (successo), è decisamente più deludente. Da questa breve analisi dobbiamo dunque concludere che l’impianto non è la soluzione migliore né per il paziente, per motivi clinici, né per l’operatore, per motivi legati alla gestione del caso e alla sua scarsa possibilità di risoluzione delle complicanze, che appaiono più frequenti nel caso di riabilitazione implanto-protesica. Per questo l’inserimento implantare dovrebbe essere limitato o alle zone già edentule o a sostituire denti realmente non recuperabili. Per contro, l’operatore dovrebbe essere in grado di gestire correttamente le varie problematiche cliniche che il dente compromesso può presentare e che sono solo in ultima analisi di tipo endodontico. Per garantire una buona durata alla riabilitazione del dente compromesso, infatti, l’operatore deve essere in grado di diagnosticare e di gestire problemi ricostruttivi, parodontali, estetici e, infine, endodontici.

Criteri clinici per il recupero dell’elemento compromesso

Quali sono dunque i criteri che dobbiamo prendere in considerazione quando valutiamo la recuperabilità di un elemento compromesso? Per dare una risposta a questo quesito partiamo da un piccolo esame della letteratura relativo alle cause di fallimento degli elementi trattati endodonticamente. In un articolo ormai datato, Vire15 rilevò che gli elementi dentari trattati endodonticamente venivano persi dal paziente principalmente per motivi protesici (in quasi il 60% dei casi), mentre per il 32% questo avveniva per l’esacerbarsi di problemi parodontali solitamente preesistenti rispetto al momento del trattamento endodontico. Solo in una percentuale inferiore al 10% la perdita dell’elemento poteva essere ascritta a problemi connessi al trattamento endodontico. Più recentemente, Chen e colleghi16, analizzando le cause di fallimento dei denti trattati endodonticamente a Taiwan, rilevarono che il 40% delle estrazioni era dovuto alla presenza di gravi lesioni cariose o di elementi non più restaurabili, il 28% a fratture verticali di radice e il 23% a problemi parodontali. Solo il 9% delle estrazioni era dovuto a problematiche squisitamente endodontiche. Dunque possiamo concludere che la maggior parte dei problemi che portano alla perdita precoce degli elementi dentari che sono stati mantenuti sono legati a condizioni preesistenti quali la presenza di una malattia parodontale non individuata o non adeguatamente trattata oppure a problemi post-endodontici, come fratture o carie ricorrenti in elementi non adeguatamente ricostruiti. I problemi parodontali e ricostruttivi sono responsabili della perdita degli elementi dentari trattati endodonticamente in un lasso di tempo di 5 anni dal trattamento endodontico in una percentuale superiore al 90%.

Problematiche parodontali

Herbert Schilder affermava che un dente può essere trattato endodonticamente se sano o sanabile dal punto di vista parodontale. Queste problematiche sono solitamente già presenti al momento del trattamento endodontico e, se trascurate, portano inevitabilmente alla perdita dell’elemento entro qualche anno. Dunque la presenza di tasche parodontali e la valutazione dello stato di salute delle forcazioni sia dei molari superiori sia di quelli inferiori assume un valore determinante quando si deve decidere se conservare un elemento dentario o sostituirlo con un impianto (Figure 5a-5d).

Istituire per prima cosa la terapia parodontale non chirurgica, rivalutare e proporre eventualmente la correzione chirurgica dei difetti residui, valutando inoltre la collaborazione del paziente e quindi la sua capacità nel mantenimento del raggiunto stato di salute nel medio-lungo periodo, diventa fondamentale nel momento decisionale della terapia. Come riportato infatti da Holm-Pedersen e colleghi17, a distanza di 10 anni la prognosi di elementi parodontalmente compromessi ma ben trattati e mantenuti si colloca in un range del 92-93% di sopravvivenza, mentre Gotfredsen e colleghi18, rispondendo durante una “consensus conference” su impianti vs denti naturali alla domanda se fosse migliore la prognosi implantare rispetto a quella degli elementi naturali con un ridotto supporto parodontale, giunsero alla conclusione che questi ultimi avevano un tasso di sopravvivenza maggiore. Una particolare attenzione dovrà poi essere posta alla valutazione della vitalità degli elementi dentali e alla presenza di eventuali correlazioni endodonto-parodontali, così come alla necessità di effettuare allungamenti della corona clinica in funzione pre-ricostruttiva.

Problematiche ricostruttive

Carie ricorrenti e ricostruzioni improprie con infiltrazione coronale, che possano causare ricontaminazione dell’endodonto precedentemente trattato, sono, insieme alle fratture, le principali cause di fallimento per motivi ricostruttivi19. Per comprendere quanto il tipo di ricostruzione sia importante per quel che riguarda la durata della riabilitazione, si veda quanto rilevato da Aquilino e Caplan20, cioè che la presenza di una corona protesica come ricostruzione post-endodontica riduce di 6 volte il rischio di frattura dei denti trattati endodonticamente. Esistono poi alternative validissime alle corone protesiche come gli overlay o gli intarsi, che potranno essere efficacemente proposte in condizioni ben identificate negli attuali protocolli. In ogni caso, dal punto di vista diagnostico e decisionale sarà necessario valutare la presenza di tessuto dentale sano per almeno 4-5 mm dall’osso alveolare, in modo da poter garantire la corretta ampiezza biologica e 1,5-2 mm di dentina, possibilmente circumferenziale, per poter garantire un corretto “effetto ferula”21. Per ottenere questo sarà spesso necessario prevedere un allungamento di corona clinica o l’estrusione ortodontica dell’elemento, considerando attentamente diversi fattori quali lo stato parodontale e il rapporto corona/radice che residuerà. Secondo le indicazioni della letteratura, dove possibile sarà opportuno preferire l’estrusione ortodontica all’allungamento della corona clinica.

Problematiche estetiche

La riabilitazione di un elemento frontale superiore rappresenta per il clinico una delle sfide più complesse. Per ottenere un risultato esteticamente valido occorre tenere conto di molti fattori ed è sicuramente assai più complesso giungere a un buon risultato optando per una soluzione implanto-protesica, soprattutto in caso di grande distanza dei punti di contatto o di un biotipo gengivale sottile. Inoltre, si dovrà mantenere stabilmente una corretta distanza di 4 mm tra la superficie di contatto e l’osso alveolare se si vorrà ottenere una corretta riformazione estetica della papilla. Come rilevato da Zitzmann e colleghi9, utilizzando gli impianti sarà più complesso ottenere una buona situazione estetica per diversi motivi quali la recessione di tessuto molle che fa seguito all’estrazione e la mancanza di attacco marginale del legamento all’impianto (a differenza di quanto avviene nel dente naturale). Diversi autori22,23 hanno enfatizzato la necessità di moltiplicare gli sforzi per recuperare un dente anteriore compromesso, al fine di preservare l’architettura dei tessuti molli, soprattutto in pazienti nei quali un biotipo parodontale sfavorevole si accompagni a un’elevata richiesta estetica. Fortunatamente, per motivi anatomici sarà più facile effettuare terapie parodontali ed endodontiche, non-chirurgiche e chirurgiche, negli elementi anteriori rispetto a quelli posteriori (Figure 6a-6f).

Problematiche endodontiche

Sappiamo definire esattamente quale prognosi hanno le terapie endodontiche? Paradossalmente oggi la cosa appare più complessa del passato. L’introduzione della diagnosi radiologica 3D, possibile nella pratica quotidiana con l’uso dei dispositivi CBCT, ha mostrato come almeno un terzo delle lesioni periapicali non sia rilevabile utilizzando le comuni radiografie endorali e come questo dato peggiori ulteriormente, fino a sfiorare il 50% dei casi, quando si utilizzi a questo scopo un’ortopantomografia24. Partendo da questo dato, Wu e colleghi25 hanno a più riprese sostenuto che “two-dimensional radiographs do not provide reliable information in endodontic epidemiologic investigations and clinical outcome studies” e che si dovrebbe rivalutare la prognosi delle terapie endodontiche con ricerche a lungo termine che prevedano l’uso della CBCT26. Rilevato questo, possiamo comunque rimarcare quanto rilevato in precedenza: gli elementi trattati endodonticamente mostrano performance uguali o migliori agli impianti quando si esaminano valori relativi alla “sopravvivenza” e decisamente superiori quando la comparazione avviene in termini di “successo”. Ng e colleghi27 hanno effettuato una vasta revisione sistematica della letteratura pubblicata tra il 1950 e il 2000, rilevando un successo nella terapia endodontica primaria tra il 69,6% e l’81,4% negli elementi che presentavano radiotrasparenza e tra l’82,1% e il 90,1% per quelli senza radiotrasparenza. Successivamente, gli stessi autori28 hanno effettuato un’analoga revisione relativamente ai ritrattamenti esaminando i lavori tra il 1961 e il 2005, rilevando come il valore medio delle guarigioni riportate fosse il 76,7% (con range 73,6-89,6). Tuttavia questi dati riflettono la presenza di molte problematiche interne agli studi esaminati: numerosi di questi sono stati effettuati esaminando terapie eseguite da studenti, dunque da operatori con un’ovvia mancanza di esperienza. Parecchi altri hanno un follow-up molto breve, in alcuni casi di pochi mesi. Anche il termine di quattro anni, stabilito da Ørstavik e colleghi29, appare insufficiente: Molven e colleghi30, ad esempio, hanno dimostrato come una percentuale di oltre il 6% dei casi giunga a guarigione dopo 20-27 anni dalla terapia endodontica! Uno studio condotto da Alley e colleghi31 ha evidenziato che, nonostante la percentuale di sopravvivenza della terapia endodontica eseguita da dentisti generici sia decisamente elevata (89,7%), quella che ottengono gli specialisti in endodonzia è decisamente più elevata, rasentando il 100% (98,1%). Per questo motivo ritengo che si possano considerare come un valido valore di riferimento per la prognosi del ritrattamento, quando eseguito da operatori esperti, i dati presentati da Gorni e Gagliani32 nel 2004. Questi due autori hanno riportato un successo dell’86,8% (in casi con calcificazioni, stop apicali, strumenti rotti e otturazioni sotto estese), ma questa percentuale diminuisce drammaticamente al 47% quando il caso è reso complicato da alterazioni dell’anatomia canalare, quali trasporti interni ed esterni, perforazioni, stripping e riassorbimenti interni (Figure 7a-7d).

L’endodonzia è la branca dell’odontoiatria che dai primi anni Novanta del secolo scorso ha goduto di miglioramenti sia nelle tecniche che nello strumentario che le aziende produttrici hanno messo a disposizione. I localizzatori elettronici d’apice di terza generazione hanno permesso ai clinici di avere misurazioni rapide, ripetibili e oggettive, mentre con gli strumenti rotanti in NiTi è possibile sagomare i canali in modo rapido e sicuro. Nuovi protocolli di detersione e nuovi dispositivi hanno enfatizzato la pulizia profonda dell’endodonto. Con una marcia lenta, ma inesorabile, il microscopio operatorio è passato da essere uno strumento di nicchia a essere uno strumento indispensabile in molti ambulatori. Più di recente, la stessa cosa sta avvenendo per i dispositivi radiografici CBCT, che hanno consentito di superare i limiti della diagnosi attraverso immagini bidimensionali. Anche se nella percezione collettiva questo dispositivo resta confinato alla diagnosi pre-chirurgica e implantare, in un testo che ho recentemente pubblicato con il dottor Roberto Ghiretti e con l’ingegnere Riccardo Laziosi33 abbiamo rilevato oltre una sessantina di sue indicazioni alla pratica clinica quotidiana. Tra queste, l’endodonzia fa la parte del leone: l’esame volumetrico, eseguito rigorosamente con dispositivi a “small field of view” per ridurre drasticamente l’irraggiamento del paziente e ottenere una maggiore definizione attraverso “fette” di spessore molto ridotto, è estremamente utile in molteplici situazioni, dalla valutazione della presenza di lesioni periapicali all’analisi delle complessità anatomiche (utilissimo nella ricerca dei quarti canali dei molari superiori) o all’identificazione di problematiche cliniche quali calcificazioni, perforazioni, riassorbimenti e così via. In endodonzia vale il detto “fai quello che vedi, vedi quello che fai” e la sinergia offerta dall’uso combinato di esame volumetrico e microscopio operatorio ci consente di risolvere problemi che in passato erano di fatto invalicabili. Oggi, a mio parere, la pratica di una buona endodonzia deve partire necessariamente dalla conoscenza dei principi biologici e meccanici, ma si sviluppa attraverso l’uso degli innumerevoli strumenti che ci vengono proposti e che ci consentono la risoluzione della maggior parte delle “problematiche endodontiche”, anche quelle più complesse.

Come evidenziato da Giano Ricci e colleghi34, recuperare un elemento dentario compromesso richiede che l’operatore abbia una buona esperienza nel trattamento degli aspetti parodontali e ricostruttivi. Recuperare un elemento è sicuramente più complesso e meno remunerativo (o almeno così viene spesso percepito) di estrarre un dente e sostituirlo con un impianto, ma non deve essere economico il criterio che guida il clinico nella scelta. La scelta implantare ha una prognosi peggiore ed è più soggetta a complicanze nei primi 7-8 anni e in ogni caso l’estrazione di un dente è una scelta irreversibile, che dovrebbe essere eseguita solo dopo un’attenta valutazione4. Laddove è possibile, si deve dunque recuperare il dente dopo avere valutato attentamente gli aspetti parodontali e ricostruttivi. Relativamente agli aspetti endodontici, oggi molte problematiche sono risolvibili se il clinico ha una buona esperienza e sa utilizzare gli strumenti più appropriati. Siamo ben consci che ancora in molti ambulatori l’endodonzia è la “Cenerentola” dell’odontoiatria, spesso affidata al collega neolaureato, così come sappiamo che sicuramente è lunghissimo il percorso culturale che deve compiere, per arrivare a comprendere le possibilità del recupero di un elemento dentario, il dentista che non capisce l’importanza fondamentale dell’uso della diga di gomma o che non conosce la differenza tra una gengivectomia marginale e un allungamento di corona clinica. Tuttavia, questo tipo di atteggiamento è quello che ogni clinico dovrebbe perseguire per arrivare a proporre al paziente la scelta clinica migliore e più eticamente corretta. L’Associazione degli endodontisti americani35, partendo dal fatto che oggi gli studi dimostrano che il mantenimento “dell’impianto naturale” (ovvero il dente trattato endodonticamente e riabilitato funzionalmente) è la condizione migliore che possiamo offrire al paziente, suggerisce che gli si debba proporre la soluzione “migliore per lui” e nell’ottica di una vita sempre più lunga. Questa scelta dovrebbe essere basata su dati il più possibile oggettivi, e non sulle preferenze dell’operatore. Nella “statement position” relativa a questo argomento, l’AAE sostiene che “inapropriate treatment, such as: performing endodontic therapy on nonrestorable or periodontally hopeless teeth; or placing single-tooth implants when the natural tooth could predictably be retained, would also be considered unethical”36.

Al termine di questa prima parte, possiamo concludere che oggi, di fronte a un elemento dentale compromesso, non possiamo sostenere che l’estrazione e la sua sostituzione con un impianto sia la soluzione migliore. Se infatti questo dente mostra di avere un buon sostegno parodontale (anche dopo un eventuale trattamento specifico) e se può essere ricostruito si deve provvedere al suo mantenimento e alla sua riabilitazione funzionale. Questo perché, se è vero che dal punto di vista della sopravvivenza le due soluzioni (mantenimento vs sostituzione) hanno la stessa prognosi, dal punto di vista del “successo” (inteso come guarigione), della possibilità di complicanze sul medio/lungo termine (>/=7 anni) e di fattori come quello estetico ed economico la bilancia pende decisamente a favore del mantenimento dell’elemento dentario. L’implantologia non dovrebbe essere considerata, poi, come una “specialità” dell’odontoiatria, ma esclusivamente una modalità di ripristino della funzionalità da utilizzare solo e qualora fossimo in presenza di un elemento mancante o qualora questo elemento fosse assolutamente non più recuperabile. Tutto questo nel rispetto etico degli interessi primari del paziente e in considerazione di una sua aspettativa di vita sempre più lunga. Perché se è vero che non possiamo garantire al paziente quanto durerà, nel caso singolo, una qualunque delle due soluzioni, possiamo facilmente sostenere che laddove oggi c’è un dente domani ci potrà andare un impianto, ma viceversa la perdita di un impianto non potrà essere recuperata con altrettanta facilità, richiedendo comunque complesse rigenerazioni di quei tessuti molli e duri che il fallimento implantare ha definitivamente e ampiamente compromesso. In questo contesto, infatti, è interessante riesaminare i dati del già citato lavoro di Doyle e colleghi12: la riabilitazione implantare presenta, comparata con quella del dente naturale, la stessa, modesta quantità di fallimenti (6,1%), ma un numero di successi decisamente minore (73,5% vs 82,1%). Analizzando le cause dei fallimenti relativi al gruppo “dente naturale”, le 12 estrazioni sono state determinate in due casi da FVR, tre da carie estese, 4 da problemi parodontali e 3 da fratture coronali, ovvero in nessun caso il fallimento è stato determinato da problemi legati alla terapia endodontica; i 12 fallimenti implantari sono stati determinati da mobilità o perimplantite. Esaminando le “sopravvivenze”, queste sono state complessivamente molto più elevate per gli impianti (20,5% vs 11,8%); tuttavia, i casi di questi gruppi che hanno richiesto un secondo intervento sono stati molti di più per il gruppo impianti (17,9% contro 3,6%). Esaminando nello specifico i dati, ci si rende conto che per quel che riguarda il gruppo impianto, su un totale di 40 casi che sono stati ritenuti “sopravviventi”, ben 35 hanno richiesto un secondo intervento: in tre casi si è trattato di un innesto di connettivo, 6 casi sono stati tentativi di recuperare chirurgicamente una perimplantite in corso, 11 di rifacimento delle corone e i rimanenti distribuiti tra fratture delle corone, degli abutment e delle viti o perdita degli stessi. Quattro dei cinque casi che non hanno richiesto un nuovo trattamento, invece, mascherano una realtà ben diversa: se l’unico a carico di un impianto nel settore anteriore è una sostituzione pianificata della corona per motivi estetici, i 4 impianti dei settori posteriori sono destinati a essere rimossi ma la manovra non è ancora stata effettuata al momento dell’analisi dei dati. Ben diversa la situazione quando si esaminano in dettaglio le “sopravvivenze” del gruppo “dente naturale”: dei 12 casi del gruppo che non hanno richiesto un nuovo intervento, 4 sono classificati come “guarigione incerta” e 7 sono considerati “in guarigione”, ovvero andranno in un futuro più o meno prossimo ad aumentare la percentuale dei successi. I 7 casi che invece hanno richiesto un nuovo trattamento hanno mostrato segni di fallimento, legati alla comparsa di sintomi, di gonfiore, di un’area di radiotrasparenza periapicale e, in un caso, alla formazione di un tragitto fistoloso. Tutti questi casi sono stati sottoposti a un ritrattamento endodontico e anche se non ne conosciamo il destino possiamo estrapolare teoricamente che l’80% di loro andrà a ingrossare ulteriormente il gruppo dei casi risolti con successo. Questo è l’unico lavoro che confronta nello stesso studio riabilitazione implantare e su dente naturale e le conclusioni confermano quanto detto in precedenza:

  • il fallimento della riabilitazione su dente naturale è legato a problemi che frequentemente non riguardano l’aspetto endodontico, ma sono riconducibili al pretrattamento, come quelli parodontali, o al post-trattamento, come quelli ricostruttivi;
  • i problemi di origine endodontica possono essere affrontati con un successivo ritrattamento (che giunge a percentuali di guarigione molto vicine al 90%);
  • la percentuale di guarigione è superiore nel gruppo “dente naturale” rispetto a quello “riabilitazione implantare”;
  • le complicanze sono decisamente più elevate nel gruppo “riabilitazione implantare” e riguardando spesso problemi relativi alle sovrastrutture protesiche.

A questo, aggiungiamo l’evidenza che a oggi non esistono ancora soluzioni affidabili, chirurgiche o non chirurgiche, per la risoluzione della perimplantite.

La chirurgia endodontica

Prendiamo finalmente in analisi quello che è il nostro argomento cardine. Nell’esame della letteratura che abbiamo svolto fino a ora non abbiamo fatto nessun accenno alla possibilità che vengono offerte dalla chirurgia endodontica per risolvere i casi di fallimento della terapia endodontica. Queste procedure dovrebbero essere considerate, invece, parte integrante del piano di riabilitazione del dente naturale, consentendo di risolvere molti problemi di origine endodontica che sono rimasti irrisolti anche dopo il ritrattamento. La chirurgia endodontica dovrebbe essere la “seconda gamba” della pratica clinica dell’endodonzia, parimenti importante a quella ortograda. Arnaldo Castellucci37 ha proposto in passato di chiamarla “endodonzia chirurgica”, enfatizzando il concetto che i principi sono i medesimi, sia che si decida di trattare l’endodonto passando attraverso la corona, sia passando attraverso un lembo chirurgico. Al di là del gioco semantico, sicuramente è un concetto profondamente corretto: scopo dell’endodonzia è la rimozione dei batteri e di fattori irritanti che provengono dall’endodonto e che causano la persistenza di lesioni periradicolari. La conoscenza e l’applicazione dei principi che devono essere alla base del trattamento endodontico è di fondamentale importanza: la chirurgia endodontica è una delle modalità di risoluzione della patologia endodontica, che bisogna conoscere in profondità. Ma è un problema endodontico, e come tale la sua risoluzione avviene solo nel rispetto dei principi della terapia endodontica. Rahbaran e colleghi38 hanno indagato sui risultati a quattro anni degli interventi di chirurgia endodontica eseguiti in un ospedale universitario nel Dipartimento di chirurgia orale e in quello di endodonzia, rilevando come la completa guarigione venisse ottenuta in quest’ultimo reparto con una frequenza doppia rispetto ai casi trattati dai chirurghi orali. Curiosamente, la pratica della parte chirurgica dell’endodonzia è abbastanza di nicchia, e vi sono endodontisti che limitano la loro attività all’endodonzia ortograda. Eppure dovrebbe essere chiaro che questa, da sola, non può risolvere tutti i casi. Ritornando al già citato articolo di Gorni e Gagliani32, dobbiamo concludere che nelle mani di endodontisti veramente esperti e dotati dei migliori strumenti, una percentuale di ritrattamenti che va dal 12,2% al 53% non va incontro a guarigione. Come ho sottolineato precedentemente, dobbiamo ritenere questi valori, proprio per le competenze degli operatori, come valori di punta, non medi. Il paziente che si affida a noi ci chiede di risolvergli il problema, e non potrà certamente essere soddisfatto se lo informiamo che in una percentuale di casi attorno al 15% il suo dente non guarirà, o meglio che non abbiamo un’arma per poter risolvere il suo problema. Al termine della nostra valutazione diagnostica che ci ha portato a definire il suo dente come affidabile dal punto di vista parodontale, ricostruibile e con un problema endodontico, non potremo certamente fermarci a un passo dalla fine: la chirurgia endodontica rappresenta l’ultima arma che ci potrà consentire di risolvergli il problema, qualora il nostro ritrattamento non sia stato sufficiente a innescare i meccanismi di guarigione dei tessuti periradicolari. Seltzer e Kim4 hanno esaustivamente definito questa come “l’estrema procedura per salvare il dente”. Inoltre, l’endodonzia chirurgica, al pari di quella ortograda, è forse la parte dell’odontoiatria che maggiormente ha beneficiato di aggiornamenti tecnici e tecnologici negli ultimi 25 anni e tutto questo ovviamente ne ha modificato in modo radicale il risultato prognostico (Figure 8a-8g).

La prognosi in chirurgia endodontica

Shimon Friedman39, esaminando una vasta letteratura, riporta una percentuale di successo della chirurgia endodontica che varia dal 37% al 91%, con un ampio range di variabilità che non tiene conto delle modifiche tecniche che sono intercorse da quando si è introdotto l’uso del microscopio operatorio e degli ultrasuoni. Se infatti la chirurgia tradizionale, eseguita con strumenti rotanti, richiedeva un grande sacrificio di tessuto radicolare, un’enorme esposizione di tubuli dentinali e si accompagnava a un sigillo retrogrado insufficiente, l’introduzione del microscopio e degli inserti ultrasonici chirurgici, avvenuta nei primi anni Novanta del secolo scorso, ha consentito di modificare completamente sia l’angolo di taglio della radice che la qualità della preparazione retrograda. Il cambio dei materiali da otturazione – passando dall’amalgama a nuovi prodotti quali il SuperEba, i cementi Portland o da essi derivati – inseriti per una profondità di almeno 3 mm nel canale retropreparato ha ulteriormente aumentato la probabilità del successo di questa manovra. Se dunque la percentuale di successo con la terapia tradizionale si attesta attorno al 59%, con la tecnica microchirurgica è stato rilevato il 94% di esiti positivi40. Risultati addirittura migliori, attorno al 97%, dopo un anno sono stati riportati utilizzando microscopio operatorio e SuperEba da Kim e Rubinstein41. Tsesis e colleghi42 hanno rilevato che la tecnica tradizionale riflette una prognosi peggiore quando si esaminano i molari e questo può essere legato al taglio esageratamente inclinato richiesto per poter accedere ai canali, soprattutto nei molari inferiori. Ottimizzare la prognosi endodontica inserendo nel flusso terapeutico la chirurgia endodontica in caso di mancata guarigione delle lesioni periapicali dopo il ritrattamento significa raggiungere percentuali di successo veramente prossime al 100%. Martin Trope43 nel 2006, ipotizzando una situazione dove si utilizzassero gli indici prognostici meno favorevoli, rilevò che effettuando la terapia endodontica primaria, quindi il ritrattamento, e infine la chirurgia endodontica in 100 casi, solo in 3 si sarebbe dovuti arrivare all’estrazione.

Perché il ritrattamento fallisce?

Come rilevato da Nair44, le cause di fallimento della terapia endodontica hanno origini sia batteriche che non batteriche. Quelle a etiologia batterica sono dovute alla presenza di batteri sia intra-canalari che extra-canalari. I batteri intra-canalari possono essere in parti di canali che non sono state trattate o in altre che sono irraggiungibili. I batteri extra-canalari possono essere indovati in cripte del cemento sulla superficie della radice, oppure vivere e accrescersi all’interno della lesione45. Tipici di questo tipo di infezione sono alcune specie batteriche come gli actinomiceti46. Tra le cause non batteriche troviamo le cisti “vere” (ovvero quelle lesioni dove istologicamente il lume canalare è separato dal lume della cisti), alcune lesioni contenenti cristalli di colesterolo e altri tipi di lesioni da ricondursi alle “lesioni da corpo estraneo”, dovute alla polvere di guttaperca, al talco dei guanti, a pezzetti di cono di carta rimasti nel periapice dopo l’estrusione accidentale durante l’asciugatura del canale o alla presenza di frammenti di verdura o di cibo, estrusi fuori apice nel dente “lasciato aperto a drenare”. A queste, Nair aggiunge le “cicatrici apicali” che però sono da ritenere esiti di guarigione e non condizioni patologiche. C’è da notare che se tutte le lesioni “non batteriche” e quelle “batteriche extra-canalari” richiedono necessariamente il trattamento chirurgico dell’area periapicale per poter essere risolte, al contrario quelle “batteriche intra-canalari” possono essere risolte con un ritrattamento in percentuali assai elevate. Per quel che riguarda i canali non detersi o non otturati, un nuovo trattamento, rispettoso dei principi della moderna endodonzia, potrebbe abbattere la carica batterica consentendo la risoluzione della patologia periapicale. Anche canali che potrebbero essere considerati da un operatore come non accessibili possono essere viceversa trattati con successo da un operatore esperto e dotato di strumenti come il microscopio operatorio e la CBCT (Figure 9a-9f). Un discorso a parte quello delle “cisti” che molti operatori, ancora oggi, ritengono a torto risolvibili solo con la terapia chirurgica. Come evidenziato sempre da Nair e colleghi47, le cisti sono circa il 15% delle lesioni radiotrasparenti (per altri autori le percentuali sono leggermente maggiori), ma solo nel 9% sono “cisti vere” mentre il 6% rimanente sono “pocket cysts”, ovvero cisti il cui lume è direttamente in contatto con il lume del canale, il cui contenuto infetto ne sostiene la patologia. Nello stesso lavoro l’autore individua la presenza di una membrana anche nel 23% dei granulomi periapicali e nel 14% degli ascessi periapicali, rendendo di fatto nulla l’ipotesi che sia la membrana della cisti a rendere impossibile la loro guarigione con il solo trattamento endodontico ortogrado. Le cisti d’origine endodontica, dunque, possono guarire con il solo trattamento endodontico ortogrado e questo deve essere sempre eseguito, mentre l’eventuale trattamento chirurgico non deve essere considerato come l’intervento d’elezione, ma come una “seconda opportunità” da utilizzare solo con l’evidenza della permanenza della patologia a distanza di tempo. Ancora una volta Nair48 è estremamente illuminante riguardo a questo argomento.

È necessario il ritrattamento?

Da quanto appena espresso appare dunque assolutamente necessario che il ritrattamento endodontico preceda, ovunque sia possibile, il trattamento chirurgico. Potremmo postulare che se il trattamento endodontico deve mirare a rimuovere i batteri dai canali radicolari infetti per poter consentire all’organismo di guarire, l’azione sinergica per via ortograda e per via retrograda, volta a raggiungere e a trattare la maggior parte dell’endodonto, potrà garantire risultati tanto migliori quanto minore sarà la quantità di sistema canalare lasciato non trattato. A titolo di esempio, immaginiamo di dover trattare una radice di un primo molare superiore con una lesione periapicale: con l’approccio chirurgico potremo rimuovere la parte di radice che “pesca nella lesione”, trattare il canale mesio-vestibolare con successo e magari riuscire a trattare, ma con qualche difficoltà, il canale mesio-palatale (presente in una percentuale di casi superiore al 90% dei casi!) apponendo un sigillo retrogrado di qualche mm in un canale per il resto non trattato e pieno di batteri che potranno mantenere l’infezione dalle molteplici porte d’uscita che possono essere presenti. Un altro discorso è trattare la stessa radice dopo che il ritrattamento non è stato di per sé sufficiente a risolvere la patologia, ma in cui entrambi i canali sono stati detersi e otturati, rendendo più facile il trattamento chirurgico e l’ulteriore sigillo del sistema canalare preparato e deterso anche per via chirurgica, oltre a rimuovere tutta la porzione di radice potenzialmente infetta e la lesione che la circonda. Abramovitz e colleghi49 hanno valutato un campione inviato da dentisti generici per la chirurgia endodontica (200 canali).

Di questi, l’83% presentava trattamenti endodontici inadeguati, incluso un 8,5% di canali non trattati affatto. Applicando criteri abbastanza restrittivi, questi autori hanno ritenuto che solo il 45% di questi denti doveva essere trattato chirurgicamente, mentre nel rimanente 55% dei casi un gruppo consistente (10,5%) doveva essere ancora seguito nel tempo prima di prendere una decisione, mentre il 44,5% poteva essere recuperato da un endodontista esperto con un semplice ritrattamento. Purtroppo non sono disponibili molti lavori che prendano in esame l’influenza del ritrattamento sulla prognosi della terapia endodontica chirurgica. In uno di questi rari lavori, Taschieri e colleghi50 hanno valutato l’incidenza sul risultato finale del ritrattamento endodontico prima della terapia chirurgica rilevando che questa procedura incrementa significativamente la prognosi sia rispetto al gruppo nel quale il ritrattamento era possibile, ma non era stato effettuato, sia rispetto al gruppo in cui il ritrattamento era impossibile. Molti lavori hanno comparato la prognosi della terapia chirurgica rispetto al ritrattamento, rilevando come la chirurgia offra sul breve periodo una prognosi migliore. Dobbiamo comunque sottolineare come il concetto di integrazione ritrattamento/chirurgia endodontica per aumentare la prognosi della terapia endodontica sembra decisamente poco o per nulla indagato dalla ricerca internazionale. Le procedure diagnostiche e cliniche utilizzate oggi in chirurgia endodontica verranno illustrate nella seconda parte dell’articolo.

Bibliografia
ambuLaureato in medicina e chirurgia presso l’università di Bologna nel 1989, si perfeziona in endodonzia all’Università di Firenze nel 1998.
Titolare degli insegnamenti di endodonzia e di materiali dentari presso il CLOPD dell’università di Modena-Reggio Emilia dall’AA 2002-2003 all’AA 2011-2012; attualmente è professore a contratto al corso di Laurea Magistrale di odontoiatria e protesi dentaria dell’università di Siena. È docente ai corsi master di endodonzia dell’università di Siena, di Cagliari e di Valencia (Spagna). È direttore del diploma di microendodonzia in lingua italiana dell’Universitat de Valencia. Socio attivo della Società italiana di endodonzia e dell’Accademia italiana di endodonzia, è Certified member dell’European Society of Endodontology.
leleambu@libero.it

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Estrarre o conservare l’elemento dentario? Il ruolo della chirurgia endodontica - Ultima modifica: 2016-01-11T09:23:39+00:00 da Redazione

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