Una ricostruzione di seconda classe di Black in un secondo premolare

La restaurativa diretta è la procedura di base su cui da sempre vengono formati i giovani odontoiatri. Fa parte dell’attività clinica quotidiana di chiunque si occupi di odontoiatra generale e, nel corso degli anni, ha conosciuto diverse innovazioni tecniche.

Una delle problematiche maggiori per chi si avvicina alla pratica – ma, talvolta, non priva di difficoltà anche per i più esperti – è costituita senza dubbio dai restauri diretti delle cavità classificabili come seconda classe di Black, ovvero le lesioni cariose a carico delle superfici interprossimali degli elementi premolari e molari.

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In tali casi, il primo scoglio può essere rappresentato già dalla diagnosi di carie. Il paziente alle volte riferisce una sintomatologia aspecifica e l’esame radiografico può essere fuorviante. L’esame clinico-obiettivo rimane sempre la fase diagnostica dirimente: negli ultimi anni sono stati messi a punto diversi ausili utili al riconoscimento delle lesioni da demineralizzazione occulte, come ad esempio i sistemi di transilluminazione a fibre ottiche, la fluorescenza al laser o altre ancora.

Una volta diagnosticata la carie, il passaggio successivo è naturalmente il trattamento. Uno dei principi del restauro mediante resine composite è che la cavità si modella sulla lesione cariosa: il clinico potrà quindi accedere alla carie mediante un sacrificio ragionato di tessuti sani. È chiaro che il razionale del minimamente invasivo non potrà prescindere dalla certezza della rimozione del tessuto cariato nella sua interezza.

Il passaggio finale è rappresentato ovviamente dal restauro. Secondo diversi autori e formatori dell’ambito, l’elemento di difficoltà principale è rappresentato dal ripristino del punto di contatto interprossimale. Il background teorico che sottende la realizzazione di un buon punto di contatto è naturalmente che non tutti gli elementi dentari si affrontano approssimalmente allo stesso modo. Il punto potrà essere più simile a un’area di contatto o essere in posizione più o meno apicale (o coronale).

Verrà ora considerato uno dei protocolli operativi tra i più consolidati per questi casi. Non è superfluo, in prima battuta, spendere una parola sull’imprescindibile importanza dell’uso della diga: vengono in questo caso isolati almeno i 2 denti che si affrontano nel punto di contatto. Fin dalla fase di mordenzatura, gli autori suggeriscono l’uso della matrice (abbinata a un cuneo), proprio allo scopo di proteggere l’elemento sano. Non solo: in fase di restauro, la matrice fornirà un ostacolo naturale all’apposizione di materiale. Per questo motivo la matrice sezionale è da preferire al modello avvitabile, perché riprende più fedelmente la bombatura naturale della corona. La matrice stessa viene adattata ulteriormente con il posizionamento di un gancio ad anello, poi tramite brunitura, da effettuare anche con un semplice modellatore a palla.

A questo punto, il clinico potrà procedere alla sovrapposizione del materiale: le procedure cambiano in funzione dei protocolli. Il caso illustrato nel video prevede un approccio tradizionale, ma altri clinici preferiscono oggi agire in altro modo, ad esempio posizionando una massa di resina fluida bulkfill. Quale che sia la tecnica, la validità del punto di contatto rimane fondamentale per garantire la futuribilità di quell’area tanto delicata nell’ottica del rischio di carie secondaria.

Una ricostruzione di seconda classe di Black in un secondo premolare - Ultima modifica: 2016-04-13T07:02:23+00:00 da redazione

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