La via di fuga

Chi l’avrebbe mai detto? A volte anche le questioni di vil denaro possono nascondere elevati spunti giuridici e, perché no, utili vie di fuga da inforcare alla bisogna, con la benedizione della Suprema Corte di Cassazione.

Agli odontoiatri, costretti – da legislatori poco pratici e spesso estranei a specifiche realtà lavorative – a diventare a volte fin troppo scrupolosi nelle trafile burocratiche annesse alla raccolta di dati e consensi di pazienti, corre in aiuto la Cassazione, affinando il concetto di “consenso informato” a favore dei professionisti.

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Il caso

C.S. proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza di secondo grado emessa dal Tribunale di Ragusa – sede distaccata di Vittoria – che, pronunciando sull’appello proposto dal Dott. G.B. avverso la sentenza emessa dal Giudice di Pace, accoglieva in parte l’impugnazione, rigettando l’opposizione proposta dalla stessa paziente C. avverso un decreto ingiuntivo emesso dallo stesso Giudice di Pace su ricorso del nominato Dott. B. per la somma di Euro 1.374,37, che si assumeva dovuta per prestazioni odontoiatriche rese in favore della ricorrente. Quest’ultima aveva giustificato la propria opposizione al provvedimento monitorio, sostenendo che nessun incarico professionale era stato affidato all’odontoiatra, atteso che essa C. si era recata presso il suo studio professionale per una visita di controllo a causa di un’algia alle arcate dentarie inferiori limitandosi, il Dott. B., in quella sede, a limare alcuni denti e a rilevare il calco dell’arcata dentaria, prospettandole la necessità di più interventi operatori per un costo preventivato in Euro 4.550,00. Il giudice di primo grado, sulla base delle dichiarazioni dei due testi escussi, aveva ritenuta fondata l’opposizione al provvedimento monitorio perché mancante della prova del rapporto professionale in questione, mentre il giudice d’appello, diversamente valutando le stesse emergenze istruttorie, era giunto all’opposta conclusione, ovvero che era stata allegata la prova del credito azionato sia nell’an che nel quantum, richiamandosi a tal fine all’art. 2233 c.c. (“Compenso: Il compenso, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene. In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione. …”, ndr).

La decisione

Innanzitutto, era dall’esponente eccepita la violazione dell’art. 2229 e dell’art. 1418 c.c. (rispettivamente “Esercizio delle professioni intellettuali” e “Cause di nullità del contratto”), deducendo che la mancanza dell’acquisizione del consenso informato da parte dell’odontoiatra avrebbe sine dubio comportato la nullità del contratto d’opera professionale.  La Corte di Cassazione, però, riteneva tale motivo di gravame inammissibile proceduralmente per la novità della questione, in quanto le parti contrastavano unicamente sul conferimento al dentista dell’ulteriore incarico di realizzare una protesi dentaria, rimanendo, invece, pacifico che la paziente era ricorsa al medico “perché doveva mettere un dente” o perché aveva un’algia a un’arcata dentaria. A prescindere da ciò, la Corte di Cassazione teneva comunque a osservare come il consenso informato non attenesse alla validità del contratto d’opera professionale e, in particolare, alla diagnosi della situazione del paziente e alla scelta della terapia, ma al solo trattamento sanitario necessario per l’attuazione della stessa; l’inosservanza del menzionato obbligo di ottenere il consenso informato trovava, allora, la sua sola sanzione in una responsabilità (contrattuale) del sanitario anche nel caso in cui, a prescindere da una sua colpa professionale, il trattamento da lui praticato avesse comportato un aggravamento delle condizioni di salute, il cui rischio il paziente non era stato messo in condizione di valutare; il difetto di consenso informato avrebbe potuto eventualmente giustificare una domanda risarcitoria per, nel caso di specie, l’avvenuta irreversibile limatura dei denti della cui necessità per l’applicazione della protesi non era stata informata. Anche il secondo motivo di gravame (violazione degli artt. 2697 e 2721 c.c. “Onere della prova” e “Ammissibilità della prova testimoniale: limiti di valore”, ndr), in forza del quale la ricorrente deduceva l’inattendibilità della prova testimoniale circa il conferimento dell’incarico professionale e la necessità della prova scritta dell’incarico conferito al dentista di applicare la protesi dentaria, ai sensi del succitato art. 2721 c.c. era considerato sia inammissibile perché costituiva questione nuova nel giudizio, sia infondato in quanto la sentenza affermava che dalla deposizione testimoniale emergeva la prova della commissione al dentista della protesi dentaria e la sostanziale censura della valutazione dei mezzi di prova attingeva un apprezzamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità perché adeguatamente e logicamente motivato. Il ricorso era quindi rigettato.

Consenso e risarcimento

Tante, troppe, le volte che un professionista si è visto condannare per questioni di “consenso informato”: la sola mancanza di acquisizione, fosse o meno giustificata, comportava agli occhi degli Organi giudicanti una grave lacuna da stigmatizzare e da punire con l’accoglimento delle richieste del paziente, tradito nella fiducia e defraudato del proprio potere decisionale. Problematiche meno nobili, ma comunque sicuramente elevate al rango di “questioni di principio”, hanno invece permesso alla Suprema Corte di riportare l’attenzione su alcuni particolari aspetti giuridici impossibili da ignorare e che permeano il rapporto che si costruisce tra medico e paziente: il rapporto contrattuale. Le azzardate strategie adottate nel procedimento poc’anzi illustrato (a quanto pare, un continuo modificare di domande nonostante rigidi divieti procedurali) non sono riuscite, però, a confondere i Giudici della Suprema Corte che già tanto hanno scritto e tante volte sentenziato sul “consenso informato”. Anzi, hanno dato loro modo di ribadire come la natura del consenso informato non sia altro che contrattuale e come la sua mancanza non integri quei casi specifici di nullità contrattuale previsti dal nostro Codice Civile (contrarietà a norme imperative, mancanza di accordo tra le parti/di causa/di oggetto/di forma dove prevista, illiceità della causa, illiceità dei motivi, impossibilità/illiceità e indeterminatezza dell’oggetto, ndr) bensì solo una violazione delle pattuizioni assunte all’atto della stipula contrattuale, così da non comportare il diritto a non versare il corrispettivo pattuito bensì il diritto a ottenere il risarcimento per il danno eventualmente subito. Poca roba, è vero, ma è una questione che la Cassazione ha inteso affrontare anche per dare un’arma di difesa in più in mano a una delle categorie oggi maggiormente interessate da contenziosi e richieste da parte di chi, da domani, avrà una scusa in meno per non saldare le parcelle.

La via di fuga - Ultima modifica: 2013-12-09T11:39:33+00:00 da fabiomaggioni

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