La luce in fondo al tunnel

 

Una recente sentenza del Tribunale di Novara ribadisce l’autonomia della Giustizia civile rispetto a quella penale, lasciando così il professionista in una sorta di angoscioso limbo, in balia di ricorsi, atti e comparse.

a cura di Mariateresa Garbarini

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Nihil novi! Da sempre i magistrati civili reclamano la propria autonomia e indipendenza dai colleghi penali, vuoi per i diversi Istituti giuridici attorno ai quali è fiorito il Codice Civile vuoi per un sano orgoglio e senso di appartenenza. Il tutto, però, a volte anche a scapito di chi, uscito indenne da un travolgente turbinio penale, paradossalmente potrebbe non aver sorte decisa sino alla conclusione di ben sei gradi di giudizio, quando inizierebbe a riaffiorare una luce in fondo al tunnel.

Il caso

Al solito, ci troviamo di fronte a un decesso in seguito a un importante intervento chirurgico addominale. Da una diverticolite si è passati velocemente a una peritonite purulenta, passando per una colostomia, una embolia cerebrale, quattro interventi e fuoriuscita di materiale enterico… fino al decesso, quasi una liberazione!
I parenti chiedevano giustizia, sostenendo ci fosse una responsabilità penale dei medici per l’accaduto; i medici, dal canto loro, si difendevano mostrando la regolarità delle manovre poste in essere.
Era allora pronunciata una sentenza di assoluzione ex art. 530, secondo comma, c.p.p. (“… 2. Il Giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile. …”).
Adivano quindi – gli eredi – la Giustizia civile, ribadendo come a giudizio dei medici legali interpellati la condotta posta in essere dai sanitari non fosse stata consona ai protocolli e alle Linee guida e, di conseguenza, deficitaria sotto il profilo della negligenza, dell’imprudenza e dell’imperizia.
Forti dell’assoluzione conquistata in campo penale, i convenuti ribadivano quanto già esposto avanti la precedente Autorità adita.

La decisione

Con puntiglioso orgoglio, il Tribunale sin da subito precisava: «… Si osserva in primo luogo, sotto il profilo della valenza del giudicato penale in questa sede, che se la sentenza penale di assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento fa stato nel giudizio civile – quando vi sia stata costituzione di parte civile (o le parti siano state citate) ed essa abbia accertato che il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso – permane sempre in capo al giudice civile il potere di accertare autonomamente con pienezza di cognizione i fatti dedotti e pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate all’esito del processo penale (Cass 16.12.2014 n 6692, cass.25.9.2014 n. 20252; Cass.13.11.2013
n. 25538): ciò alla luce anche della formula di assoluzione. Diversa è infatti la valutazione dell’elemento soggettivo della colpa che in sede civile va considerato in termini di colpa obiettiva alla luce dei modelli di condotta vigenti al momento dell’evento; così come quello del nesso causale la cui sussistenza, se nel giudizio penale deve sussistere oltre ogni ragionevole dubbio, in ambito civilistico va rapportata al canone del “più probabile che non”…».

…È ormai pacifico in giurisprudenza che il rilascio del consenso informato costituisca elemento di validità del contratto, volto ad assicurare l’autodeterminazione del paziente nella scelta delle cure. La sua corretta acquisizione da parte del medico curante è prestazione differente da quella terapeutica e, quindi, la relativa mancanza dà diritto a un’autonoma voce di risarcimento del danno…

Dissertava poi su procedure riconosciute, su dati clinici e su altre circostanze in tutta evidenza di poco conto per noi estranei alla vicenda e dediti all’odontoiatria.

Il corpo della sentenza, però riportava un’altra preziosità. Tra le numerose domande avanzate, gli attori chiedevano la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni subiti anche per un’altra circostanza: la presenza di un “consenso informato” generico che insinuava il dubbio che la paziente non fosse stata affatto informata del trattamento che sarebbe, poi, andata a subire. Scrive il Giudice monocratico: «Quanto all’ulteriore motivo di richiesta dei danni, vale a dire l’asserito mancato consenso informato, in materia è ormai pacifico in giurisprudenza che il rilascio del consenso informato costituisca elemento di validità del contratto, volto ad assicurare l’autodeterminazione del paziente nella scelta delle cure. La sua corretta acquisizione da parte del medico curante è prestazione differente da quella terapeutica e quindi la relativa mancanza dà diritto a un’autonoma voce di risarcimento del danno. In particolare, fatti propri tali principi, una recente e importante sentenza della Cassazione ha precisato che il consenso informato deve assumere i caratteri della completezza, specificità e attualità: “deve contenere tutte le informazioni scientificamente possibili riguardanti le terapie che il medico intende praticare con l’indicazione delle eventuali modalità e conseguenze, col solo limite dei rischi imprevedibili o degli esiti anomali al limite del fortuito…” (cfr. Cass. 20.5.2016 n. 10414). Di talché per il raggiungimento degli scopi informativi sopra riassunti non è sufficiente la firma di un generico modulo prestampato occorrendo se del caso un colloquio col sanitario. Quanto alle modalità di liquidazione del danno derivante dal mancato rispetto dell’obbligo di acquisizione del consenso, è stata affermata in primo luogo la sua risarcibilità ai sensi dell’art. 2059 c.c., quale disposizione che appresta tutela a ogni pregiudizio di natura non patrimoniale che derivi dalla lesione di diritti e valori della persona di rango primario (cfr. Tribunale di Milano Sent. 4.3.2008 n. 2847 est. Spera). È stato però altresì stabilito, sulla base del principio che oggetto di risarcimento non è l’inadempimento in sé ma il danno che ne derivi, che ai fini della liquidazione occorre pur sempre l’allegazione dello stesso – e delle relative circostanze da cui ricavarlo – e la relativa prova (cfr. Appello Milano Sent.7.3.2017 n. 894 est. Bo.) Ciò premesso, si osserva in primo luogo che era onere della convenuta dimostrare l’avvenuta acquisizione del consenso informato producendo la relativa documentazione. … <omissis> … Si ritiene infatti che – sulla base della documentazione prodotta dalla convenuta, il consenso non sia stato validamente acquisito. Vi è agli atti del fascicolo di parte convenuta, in allegato alla prima cartella clinica un modulo datato 20.9.09 del tutto generico e sicuramente privo dei caratteri di cui sopra si è detto, oltre che ottenuto in un tempo in cui ancora non era prevedibile il decorso clinico, in difetto dunque del requisito dell’attualità. …<omissis>… L’Azienda non ha validamente adempiuto alla relativa obbligazione. Si osserva peraltro a questo punto che gli attori nulla deducono in citazione, ai fini della relativa risarcibilità, né chiedono di provare in seconda memoria. Come già se detto pur in presenza della prova di tale inadempimento non è possibile presumere il relativo danno ed è onere di chi lo invoca allegare i relativi elementi a sostegno, … <omissis> …. La relativa domanda di risarcimento non può dunque comunque essere accolta».

Volli, sempre volli, fortissimamente volli

Non si chiede di legare alla sedia il paziente, come un novello Alfieri, per costringerlo ad ascoltare le peggior cose che potrebbero capitargli durante e dopo un’ablazione del tartaro per estorcergli il fatidico “sì”. Si vuole solo ribadire e far comprendere ancora una volta che notizie, che agli addetti ai lavori possono sembrare inutili o superflue, non così sono agli occhi di un malato o, ancor meglio, di un Giudice che, interessato della questione, non può oggi che seguire un ormai consolidato e sicuro indirizzo giurisprudenziale.

La luce in fondo al tunnel - Ultima modifica: 2018-09-27T10:41:45+00:00 da Redazione

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