La giusta vendetta

La fedina penale di reo e correo rimarrà immacolata, ma almeno il portafoglio rimarrà vuoto. È quanto statuito dalla Suprema Corte interessata dall’ennesimo caso di esercizio abusivo della professione: costretta a lasciare indenni gli imputati, non ha esitato a confermare le statuizioni civili assunte nei precedenti gradi di giudizio a loro danno, permettendo così alla vittima di trovare giusta vendetta.

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Questa volta la Corte ha dato un nome alle ansie e alle paure del paziente che, convinto di essersi affidato a un professionista, rimane invece offeso nella salute e tramortito nell’animo da chi, senza scrupoli, esercita la professione medica e odontoiatrica senza averne competenze, titoli e conoscenze: danno morale. Il danno morale ha trovato il suo giusto e autonomo riconoscimento solo recentemente, dopo un cammino giurisprudenziale abbastanza tortuoso che, passo dopo passo, decisione dopo decisione, ha dato corpo e visibilità ai naturali patemi d’animo che conseguono alla commissione di un illecito. Perché il danno morale è proprio questo: è la sofferenza subita da un soggetto (la persona offesa dal reato) a seguito, ad esempio, delle lesioni fisiche riportate e la sua autonomia “deve essere considerata in relazione alla diversità del bene protetto, che attiene alla sfera della dignità morale delle persone” e “pure attiene ad un diritto inviolabile della persona” (Cass. Civ. 29191/2008). In attesa della tanto auspicata revisione dell’art. 348 c.p. (“Abusivo esercizio di una professione”, per l’appunto) la vittima troverà almeno ristoro nell’imposto risarcimento dei patemi subiti.

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Il caso

D.E.M. e V.R. ricorrevano per Cassazione avverso una sentenza della Corte d’appello di Bologna, emessa nel maggio 2013, nella parte in cui confermava la sentenza di condanna emessa in primo grado, in ordine al delitto di cui all’art 348 c.p., limitatamente alla prestazione effettuata dal D.E.M., odontotecnico, con il consenso del V.R., odontoiatra, in data 2 dicembre 2005, e consistente nella rilevazione dell’impronta dentaria. Tra i motivi di ricorso avanzati, D.E.M. eccepiva anche il riconoscimento del danno morale alla parte civile obiettando come l’oggetto giuridico della norma fosse esclusivamente di natura amministrativa e come non si fossero verificate lesioni personali né danni di natura patrimoniale a carico di chicchessia. V.R., oltre a unirsi a D.E.M. nel sollevare eccezione relativamente all’insussistenza del danno morale e di qualunque altro danno subito dalla parte civile, deduceva la prescrizione del reato, ritenendo vi fosse massima incertezza sulla collocazione temporale dell’unico episodio ascrittogli, ingiustificatamente fissata dai giudici di merito alla data del dicembre 2005, in difformità da quanto contestato nell’imputazione ed emerso dalle risultanze acquisite, che portavano i fatti in disamina fra il giugno e il settembre 2005, e quindi “prescritti”.

La decisione

La Corte riteneva provato come D.E.M. operasse all’interno del Centro, da lui a suo tempo fondato, con continuità e con mansioni non esclusivamente tecniche ma estese a pratiche che, seppur non particolarmente invasive, erano e sono riservate all’odontoiatra, come il prelievo di impronte dentali, le prove in bocca di componenti di impianti e la collocazione in bocca di protesi o parti di esse. “D.E.M., odontotecnico anziano ed esperto, era stato titolare del medesimo studio professionale odontoiatrico fino al momento in cui si era indotto a cedere la propria avviata attività ai due Sanitari, odierni imputati. Ciò nonostante egli aveva continuato a frequentare il centro stesso, risultando presente a quasi tutti i pazienti esaminati. Ciò esclude che egli si recasse in loco solo per dare continuità al pregresso avviamento aziendale, presentando i clienti ai nuovi gestori. Gli interventi abusivi di D.E.M. venivano effettuati su pazienti che si erano affidati alle cure del Dott. V.R., talvolta in parziale presenza di quest’ultimo, con il suo previo intervento o consiglio o supervisione e pertanto con il suo pieno e consapevole contributo causale alla consumazione di tali abusive prestazioni, integranti le contestate condotte delittuose.” Ciò detto, affrontava il principio di affidamento del paziente, punto cardine del riconoscimento del diritto al risarcimento del danno morale in capo alla persona offesa del reato. Sosteneva la Suprema Corte come il paziente che si rivolge a un medico abilitato per ottenere una prestazione faccia affidamento sulla professionalità soggettiva e sui controlli che sia gli Ordini professionali sia le Autorità amministrative svolgono in merito alla competenza e adeguatezza dei Sanitari. Ne desumeva, quindi, come la pratica medica da parte di un soggetto non abilitato ledesse direttamente tale affidamento, determinando, nel paziente, uno stato d’animo di ansia, per il timore di future evoluzioni negative per la propria salute, e quindi un danno morale. L’impianto argomentativo a sostegno del decisum non mostrava quindi discrasie tali da far apparire incoerente il pensiero del giudice, apparendo invece atto a superare lo scrutinio di legittimità. I motivi del ricorso avanzato dal Dott. V.R. erano tutti respinti a eccezione dell’ultimo, relativo all’avvenuta prescrizione del reato per decorrenza dei termini. Accolto tale motivo, gli imputati andavano obbligatoriamente assolti da tutti i capi di imputazione loro ascritti. Le motivazioni, i rilievi e le ragioni formulati ed espressi nel corpo della sentenza erano però tali da non lasciare dubbi circa l’intangibilità delle statuizioni civili a danno degli imputati. Che erano – per l’appunto – in toto confermate.

Il danno morale

Su questo i giudici sono ormai categorici: l’ambito di operatività di un odontoiatra non può esulare ed esondare da quanto espressamente normato dall’art. 2 della L. 409/85, istitutiva della professione di odontoiatria nonché della figura professionale dell’odontoiatra: “Formano oggetto della professione di odontoiatria le attività inerenti alla diagnosi ed alla terapia delle malattie ed anomalie congenite ed acquisite dei denti, della bocca, delle mascelle e dei relativi tessuti, nonché alla prevenzione ed alla riabilitazione odontoiatriche. Gli odontoiatri possono prescrivere tutti i medicamenti necessari all’esercizio della loro professione”. E ciò indipendentemente dall’invasività o meno della manovra, siano impianti piuttosto che estrazioni piuttosto che devitalizzazioni, siano impronte dentali piuttosto che prove in bocca di componenti di impianti piuttosto che collocazione in bocca di protesi o parti di esse. In quest’ottica e in questo caso (Cass. Pen. Sez. VI Sent. 31129 del 15.7.2014), lo stato d’ansia che blocca il respiro quando le mani dell’odontotecnico toccano le gengive, il timore di poter patire conseguenze dolorose proprio per un intervento sbagliato posto in essere da un incompetente, a volte non richiesto né voluto, a volte imposto o altre volte vissuto con sottomissione dal paziente, comportano danni che la Corte non esita a definire “morali” il cui risarcimento voluto e deciso da altri giudici intende mantenere nonostante – e qui sta la forza della statuizione – la prescrizione intervenuta del reato penale. E se la Corte nuovamente si scaglia contro l’odioso reato lanciandosi con parole affilate come armi, la riforma dell’art. 348 c.p. stenta a decollare, del disegno di legge se ne sono perse le tracce e la pena edittale resta un rischio che si può tranquillamente correre se ben remunerato. In un’Italia fatta anche, purtroppo, da “furbetti di quartiere”, ci si affida poco al legislatore e sempre più a iene e tapiri, che contribuiscono a far crescere – e per fortuna – l’attenzione dei pazienti.

La giusta vendetta - Ultima modifica: 2014-12-12T11:34:50+00:00 da Redazione

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