Il danno e la beffa

La Signora K.H. chiedeva al Tribunale di Roma di condannare il Dott. S.C. al pagamento di Lit. 74.100.000 a tacitazione dei danni morali già patiti e delle spese mediche future invece ancora da sostenere, oltre – ovviamente – a rivalutazione, interessi e spese di lite.

Riferiva essersi affidata tra il 1994 e il 1997 alle cure dello specialista (estrazioni, cure canalari, otturazioni, ricostruzioni dentali con protesi…) ma di avere accusato, solo dopo la cementazione provvisoria dei manufatti protesici, una sindrome algico–disfunzionale delle articolazioni temporo–mandibolari. Dopo vari e vani tentativi posti in essere dal professionista per porre fine ai dolori e ai disagi sofferti dalla paziente, a seguito delle reiterate rimostranze di quest’ultima interveniva l’assicuratore offrendo l’incongrua somma di Lit. 2.500.000 a fronte del complessivo importo di Lit. 38.150.000 versato al dentista come compenso per le sue prestazioni.

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Si costituiva in giudizio l’odontoiatra, contestando integralmente – come ovvio – le affermazioni proferite dalla paziente asserendo come, non solo questa fosse già portatrice di una disfunzione dell’articolazione temporo–mandibolare per la cui correzione si era avvalso della collaborazione anche di uno specialista gnatologo (sin dalla prima volta che si era affidata alle sue cure, quindi), ma anche come non avesse consentito la conclusione dei lavori, non terminando la cura e rivolgendosi ad altro specialista.

Il Tribunale di Roma accoglieva solo parzialmente la domanda della Signora e condannava il medico alla restituzione in favore della stessa della complessiva somma di Lit. 20.200.000 oltre interessi, nonché al rimborso delle spese processuali. Respingeva invece la domanda avanzata da quest’ultimo nei confronti della Compagnia Assicuratrice di essere manlevato da qualsivoglia responsabilità nei confronti della paziente in forza della polizza di responsabilità professionale regolarmente stipulata tra le parti.

La paziente allora censurava la sentenza di primo grado che avrebbe – a suo dire – erroneamente disatteso le risultanze della CTU, ritenendo non sussistente la prova del nesso di causalità tra la sindrome algico disfunzionale della articolazione temporo-mandibolare e il lavoro eseguito dal dottore, e ciò solo sulla base delle contraddittorie deduzioni di quest’ultimo, quando invece dall’esame delle fatture descrittive delle prestazioni rese dal sanitario non risultava eseguito alcun trattamento per la cura di quella particolare disfunzione. Da ciò la Signora deduceva fosse chiaro ed evidente come in realtà non soffrisse di alcuna patologia al momento in cui si era rivolta al professionista.

«Il danno»

La Corte d’Appello di Roma riteneva il motivo di gravame infondato. Reputava infatti che correttamente il Tribunale avesse rilevato la chiara contraddizione in cui era incorso il CTU che, dopo aver dichiarato di non essere in grado di stabilire se la disfunzione articolare presente fosse o meno preesistente all’operato del sanitario, concludeva affermando che la sindrome algico disfunzionale della articolazione temporo-mandibolare, da cui risultava essere affetta la paziente, fosse stata senza ombra di dubbio scatenata dall’applicazione delle protesi fisse realizzate presso lo studio dello specialista. Sembrava infatti più convincente e applicabile la tesi del Consulente Tecnico di Parte convenuta (il medico, per l’appunto) il quale, riportando il parere di uno gnatologo, riferiva fosse la disfunzione articolare in atto ascrivibile a un atteggiamento posturale e antifisiologico adottato per il raddrizzamento della normale curvatura fisiologica del tratto cervicale con conseguente sindrome cranio-cervico-mandibolare comunemente chiamata cefalea muscolo tensiva.

Si riteneva, quindi, non dimostrato con il richiesto e necessario rigore il nesso di causalità tra le cure praticate e l’insorgenza della sindrome da cui risultava essere affetta la paziente, sulla quale incombeva peraltro l’onere della prova.

Ricordava la Corte d’Appello come già la Suprema Corte avesse chiaramente statuito sulla natura contrattuale della responsabilità del medico: al paziente il compito di dimostrare anzitutto il nesso causale tra l’evento lesivo e la condotta del professionista e successivamente la facilità o comunque l’esecuzione routinaria dell’operazione, al professionista invece l’onere di provare la propria estraneità all’insuccesso dell’operazione, non causato da difetto della propria diligenza.

Le lamentele della Signora, poi, in merito a una sottovalutazione da parte del professionista della disfunzione dell’articolazione temporo–mandibolare venivano disattese dalla dimostrata consegna di un byte, rimedio idoneo per affezioni del genere.

Ciò detto, la Corte d’Appello respingeva però anche le domande avanzate dal dentista, saldo nella sua convinzione di aver correttamente realizzato le protesi, come riconosciuto anche dal CTU che ravvisava nella paziente la colpa/responsabilità di aver interrotto i rapporti con il curante e di non aver quindi permesso al professionista stesso di perfezionare i manufatti protesici.

Riteneva, infatti, che a fronte di una patologia preesistente della Signora le cure approntate, seppur in astratto idonee alla risoluzione della patologia stomatognatica, fossero state carenti nell’esecuzione o comunque non migliorative. Senza voler infatti affermare essere l’obbligazione del dentista «di risultato», ricordava che per consolidato indirizzo giurisprudenziale (Cass. 233918/2006) «…l’inadempimento del professionista non può essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, del dovere della diligenza, per il quale trova applicazione il parametro della diligenza professionale fissato dall’art. 1176 secondo comma c.c. da commisurarsi alla natura dell’attività esercitata».

Veniva, quindi, confermata la valutazione del primo giudice, che ravvisava inadempimento del professionista, per essere stata in tutta evidenza la terapia praticata in nessun modo foriera di concreti benefici per la paziente.

Di poi la Corte, non avendo il dentista curato di dimostrare come l’inadempimento non fosse dipeso da causa non allo stesso imputabile limitandosi a riferire essersi rivolto a uno specialista gnatologo (senza però nulla dimostrare in proposito), giudicava non fosse – la patologia della paziente – di particolare difficoltà tanto da poter invocare l’esimente di cui all’art. 2236 c.c. («Responsabilità del prestatore d’opera: se la prestazione implica problemi tecnici di particolare difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave.»).

Quanto alla monetizzazione vera e propria delle richieste veniva respinta la domanda generica volta a ottenere un non meglio specificato rimborso di spese odontoiatriche future, che nel tempo ben avrebbero potuto essere meglio quantificate dalla paziente, e condannato il professionista a rendere solo e unicamente quella parte di onorario già ricevuto non riconducibile a effettive prestazioni eseguite, e con esito positivo, a favore della Signora. Cure canalari e otturazioni potevano e dovevano quindi essere retribuite.

«La beffa»

Veniva respinta, infine, altra domanda avanzata dal dottore, che chiedeva alla propria Compagnia Assicuratrice di tenerlo indenne dalla richiesta di restituzione dell’onorario percepito, e ciò in forza della polizza di responsabilità professionale sottoscritta tra le parti. Come poteva, infatti, evincersi dal contratto di assicurazione prodotto agli atti «…La Società si obbliga… a tenere indenne l’assicurato di quanto questi sia tenuto a pagare, quale civilmente responsabile, ai sensi di legge, a titolo di danni involontariamente cagionati a terzi per morte, per lesioni personali, e per danneggiamenti a cose…». Tra gli impegni assunti dall’assicurazione, quindi, non poteva annoverarsi la restituzione dell’onorario professionale, riconducibile invece ai normali effetti restitutori della risoluzione per inadempimento. Concludeva la Corte d’Appello specificando che l’onorario professionale rappresentava in realtà solo il guadagno sperato dalla attività svolta e che quindi, ai sensi dell’art. 1905 c.c. («Limiti al risarcimento: L’assicuratore è tenuto a risarcire, nei modi e nei limiti stabiliti dal contratto, il danno sofferto dall’assicurato in conseguenza del sinistro. L’assicuratore risponde del profitto sperato solo se si è espressamente obbligato.») non poteva essere ricondotto nella garanzia assicurativa richiamata in quanto non espressamente pattuito.

Come se non bastasse, il dottore veniva condannato a pagare le spese giudiziali dei due gradi del giudizio sostenute dalla propria Compagnia Assicuratrice, illegittimamente interessata della questione.

Odi et Amo

Questo struggente rapporto di odio e amore provato da Catullo verso la sua Lesbia ben può prosaicamente ravvisarsi oggi tra il libero professionista e l’assicuratore, che ammalia e stordisce con le sue parole la vittima porgendo guanciali di fiori che, al momento opportuno, si trasformano in rovi contorti e spinosi. Purtroppo la questione – grave e complessa – non può trovare neanche una pur minima soluzione in questa sede, coinvolgendo interessi a livello nazionale la cui importanza tramortisce il singolo e la sua minima visione del problema.

Suggerire di operare sempre nel pieno rispetto dei dettami deontologici, in piena scienza e coscienza, perizia e diligenza, è offensivo se rivolto a professionisti seri e consapevoli così come consigliare di leggere attentamente ogni singola clausola dei contratti di assicurazione è superfluo e pleonastico in un momento di accanimento quale quello che i medici e gli odontoiatri oggi stanno vivendo. Sottoscrivere una polizza assicurativa viene sentito come un’imposizione cui obtorto collo si deve sottostare, e ciò con grande gioia da parte delle Compagnie Assicuratrici che, invece di approfittare degli eventi, dovrebbero forse pensare ad ampliare le coperture assicurative (includendo quindi restituzioni di onorari, risarcimento di qualsivoglia danno a prescindere dalla sua natura se ovviamente derivato dall’evento lesivo ecc.) in modo da rendere meno gravosa la firma al professionista.

Il danno e la beffa - Ultima modifica: 2009-05-18T16:44:35+00:00 da fabiomaggioni

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