Se ti lamenti devi dire il perché

Un pronunciamento della Corte di Cassazione conferma un indirizzo giurisprudenziale ormai acquisito e pacifico: quando un paziente lamenta un danno e chiede il risarcimento di quanto sofferto deve dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del professionista e il danno subito. Ove non ne fosse in grado, non vi sarebbero le basi per emettere una sentenza di condanna.

Il caso

N.A. conveniva in giudizio L.O., odontoiatra, per l’asserito “grave inadempimento in ordine alla terapia adottata nel mese di febbraio 2005 (terapia canalare con ricostruzione con perni in fibra e ceramica) per la cura di una carie al molare inferiore destro (elemento 4.5)”, ne chiedeva la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, pari a euro 9.761,21, conseguente alle spese che aveva dovuto affrontare per le cure e gli interventi necessari a rimediare al pregiudizio subito; del danno non patrimoniale, nella sua accezione di danno morale e alla salute, quest’ultimo per aver patito un aumento dell’alitosi, un progressivo allargamento dello spazio interdentale nell’arcata inferiore, la comparsa di una formazione cistica nella parte gengivale trattata e, in ultimo, la perdita del dente.

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Istruita la causa, con sentenza del 2 maggio 2014, il Tribunale adito, fatte proprie le considerazioni del consulente, osservava che, pur potendosi imputare al dottor L.O. un errore nella terapia canalare eseguita sull’attrice, il danno da questa subito avrebbe potuto risolversi con un successivo trattamento ortogrado del canale o al più con un intervento retrogrado; gli ulteriori danni patiti dall’attrice, e tra questi anche l’avulsione del dente, andavano, invece, imputati alla condotta omissiva contestabile all’odontoiatra al quale si era successivamente rivolta la paziente: il comportamento attendista di questi, infatti, aveva agevolato il progredire dell’infezione, ponendosi in un rapporto di causa-effetto con l’ulteriore pregiudizio subito dall’attrice. Riteneva L.O., pertanto, “responsabile esclusivamente nell’errore nell’esecuzione della terapia canalare” e lo condannava al ristoro del relativo danno patrimoniale subito da N.A., pari a euro 500,00”.

Contro tale decisione proponeva appello la paziente lamentando la totale non considerazione data dal giudice di prime cure alle evidenze istruttorie che, a dire dell’appellante, non potevano che essere interpretate a proprio favore. Si spingeva poi oltre, arrivando a considerare l’obbligazione dell’odontoiatra una obbligazione di risultato con il conseguente onere probatorio circa l’esatto adempimento della prestazione in capo al professionista, che riteneva sul punto inadempiente.

La decisione

L’appello era respinto. Al di là di alcuni motivi di gravame ritenuti dal giudice non pertinenti, preme sottolineare la motivazione posta alla base del rigetto, afferente l’onere della prova.
Statuisce sul punto la Suprema Corte: “Non sono nemmeno fondate le censure in ordine all’omessa valutazione da parte del giudice di prime cure delle prove orali assunte nel corso dell’istruttoria, considerata l’assoluta non conducenza delle stesse, che hanno avuto a oggetto fatti non contestati o privi di rilevanza per la decisione”. In altri termini, come sostanzialmente ritenuto dal primo giudice, l’attrice, attraverso le prove offerte, non ha dato prova della fondatezza della propria domanda, se non nei limiti in cui è stata accolta.

In tema di responsabilità per attività medico-chirurgica, l’attore, infatti, deve provare l’esistenza del rapporto di cura, del danno e del nesso causale e solo allegare la colpa del medico, sul quale, invece, incombe l’onere di dimostrare che l’eventuale insuccesso dell’intervento, rispetto a quanto concordato o ragionevolmente attendibile, sia dipeso da causa a lui non imputabile.

Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica è, inoltre, onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento (onere che va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno), con la conseguenza che, se al termine dell’istruttoria non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (cfr. Cass. n. 975/2009, Cass. n. 17143/2012, Cass. n. 4792/2013, Cass. n. 18392/2017 cfr. in ultimo Cass. Sez. 3, Sent. n. 29315/2017).

La condotta colposa del responsabile e il nesso di causa tra questa e il danno costituiscono, infatti, l’oggetto di due accertamenti concettualmente distinti, cosicché la sussistenza della prima non comporta, di per sé, la dimostrazione del secondo e viceversa; e per il principio di “vicinanza della prova”, secondo cui essa va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla, al danneggiato spetta l’onere di allegare la condotta colposa e di provare il nesso di causa tra questa e il danno, mentre al professionista l’onere di fornire la prova “positiva” dell’avvenuto adempimento o dell’esattezza dell’adempimento (Cass. Sentenza n. 29315/29017 già citata).
Detta regola, inoltre, contrariamente all’assunto dell’appellante, vale senz’altro anche nei confronti dell’odontoiatra, che si occupa della prevenzione, della diagnosi e della terapia medica e chirurgica delle patologie che colpiscono denti, gengive, ossa mascellari ecc., e che, al pari di ogni altro medico-chirurgo, assume nei confronti del paziente in cura un’obbligazione di mezzi e giammai di risultato.

Ciò esposto, si rileva che l’appellante non ha fornito prova esauriente del nesso di causa tra la condotta colposa imputata all’odontoiatra – consistita nel non aver eseguito con la dovuta perizia il trattamento endodontico sul dente in cura, in particolare lasciando all’interno della gengiva un frammento del materiale utilizzato – e il danno da lei subito, ovvero un processo di flogosi che avrebbe determinato, nel mese di settembre 2007, la necessità di procedere all’estrazione del dente, con conseguente danno alla salute (consistito, oltre che nella perdita del premolare e delle connesse conseguenze, anche in un patito “disturbo dell’ansia generalizzato”) e danno patrimoniale (consistito nelle spese affrontate per i successivi interventi ortodontici).
Concludendo, la sentenza di primo grado va, quindi, confermata, poiché l’unico danno certamente riconducibile all’imperizia di L.O. è quello patrimoniale già liquidato, giacché non risulta contestata la considerazione del CTU secondo cui “una terapia canalare eseguita in maniera scorretta non impedisce di reintervenire sullo stesso elemento dentale ed ottenere il successo terapeutico”.

Unicuique suum

Già nel Diritto Romano questo brocardo era assioma incontrovertibile, certezza inconfutabile profondamente giusta che determinava la vittoria o meno di un contenzioso. Nel gioco delle parti a ciascuno il suo compito: la condanna, se dovrà esservi, ci sarà, ma solo dopo che il paziente avrà dimostrato senza tema di smentita che il danno di cui richiede il risarcimento è conseguenza dell’operato del professionista. Senza dubbi.
Senza incertezze. Sic et simpliciter.

Mariateresa Garbarini
Se ti lamenti devi dire il perché - Ultima modifica: 2019-02-17T11:21:01+00:00 da Redazione

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