La restaurativa contemporanea si basa ampiamente sulla metodica adesiva. Questa copre praticamente la totalità della conservativa e, oramai, una buona parte della protesi, oltre che delle tecniche ibride (intarsistica). Il workflow adesivo si basa sull’impiego di resine composite, la cui polimerizzazione viene attivata e portata a termine (completamente o almeno in parte) tramite light curing. Dal punto di vista biochimico, la reazione è sempre una polimerizzazione, senza rilascio di radicali liberi, tra monomeri vinilici. Tra questi, i metacrilati si distinguono in quanto presentano un metile legato al carbonio α. A partire dalla struttura di base, possono presentare sostituiti differenti, che conferiscono a ogni prodotto caratteristiche peculiari: si parlerà quindi di metil-metacrilato (MMA), etil-metacrilato (EMA), idrossietil-metacrilato (HEMA). Esistono anche altre specie, note come dimetacrilati, che contengono cioè un secondo gruppo metacrilato sul lato opposto del monomero: il più noto è il Bis-GMA, ma ne esistono altri (TEGDMA, UDMA, ecc.).

La polimerizzazione consta di tre fasi consecutive: inizio, propagazione della catena, terminazione. Nella prima frase sono effettivamente attivati dei radicali liberi che non vengono rilasciati, ma vanno a cercare un sito ricco di elettroni, che trovano in corrispondenza del doppio legame C=C del monomero: qui avviene effettivamente la polimerizzazione. Nel light curing, è la radiazione elettromagnetica a fornire l’energia necessaria ad attivare i radicali, attraverso l’interazione con molecole fotoiniziatrici. Il processo sarà chiaramente influenzato dalle caratteristiche della radiazione. A tale proposito, vale la pena di ricordare che lo spettro del visibile si colloca in una ristretta forbice di lunghezze d’onda (λ = 390-700 nm): le più basse (λ = 380-450 nm) corrispondono al violetto, le più alte (λ = 620-750 nm) al rosso. Ai lati si collocano quindi radiazioni a bassa lunghezza d’onda (quindi alta frequenza e, di conseguenza, alta energia) che comprendono in particolare gli ultravioletti, e radiazioni a elevata lunghezza d’onda (bassa frequenza, bassa energia) che iniziano con gli infrarossi. È interessante come i primi sistemi fotopolimerizzanti fossero basati sulla luce ultravioletta: inibito l’impiego clinico di queste, oggi le radiazioni sono strettamente limitate allo spettro della luce visibile.

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Come anticipato, la luce interagisce con un fotoattivatore contenuto nella resina e dotato di uno specifico picco di attivazione. Il più diffuso e, fino a pochi anni fa, l’unico in uso è il DL-canforochinone (CQ): dato che il picco di questo è posto a 468 nm, ragion per cui la maggior parte delle lampade lavora sulla ristrettissima forbice di 450-470 nm, che corrisponde in effetti al tipico blu della lampada fotopolimerizzante. In seguito sono stati introdotti e addizionati altri composti dotati di picchi di assorbimento diversi, che hanno anche in parte risolto le problematiche cromatiche determinate dal CQ (che ha un caratteristico colore giallo): 1-fenil-propanedione (PPD), ossido di monoacilfosfato (TPO, commercialmente noto come Lucirina), ossido di bisacilfosfato (Irgacure 819) e, da ultimo, Ivocerin®, composto brevettato e impiegato da un unico produttore.

Biochimica e tecnologia della fotopolimerizzazione - Ultima modifica: 2017-12-21T06:58:28+00:00 da redazione

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