Implantologia, le complicanze nel tempo

La perdita dell’osteointegrazione: per fortuna, l’ultimo dei problemi

Eugenio Romeo

Sono almeno due le ragioni che giustificano il numero di impianti sinora posizionato in Italia, molto alto rispetto a quello delle altre nazioni, soprattutto alla media dei paesi europei: uno legato al terapeuta, l’altro al paziente. “Il primo, riconducibile all’operatore”, spiega Eugenio Romeo, past president della Società Italiana di Osteointegrazione e Professore Associato di Malattie Odontostomatologiche presso il Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Milano, dove è direttore del Reparto di Implantoprotesi della Clinica Odontostomatologica, “è quello che in medicina definiamo overtreatment, cioè un trattamento in eccesso rispetto alle reali necessità.

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Molte volte abbiamo verificato l’utilizzo un po’ disinvolto della tecnica implantare, sia in situazioni cliniche dove addirittura non era necessario il posizionamento di impianti, sia per l’utilizzo di un numero eccessivo di impianti rispetto alle reali necessità. Bisogna però sottolineare che questo aspetto si sta progressivamente ridimensionando, e non solo per motivi legati alla recessione economica, ma anche e soprattutto per una presa di coscienza da parte dei clinici della necessità sempre maggiore di applicare una regola fondamentale in medicina che è quella del rapporto costi-benefici di qualunque trattamento. Il secondo fattore, legato al paziente, è la richiesta, molto alta in Italia, di non essere trattato con protesi di tipo rimovibile. Bisogna però sottolineare che questo fattore ha influenzato solo in piccola misura il numero importante di impianti posizionato negli ultimi anni”.

Sta di fatto che le problematiche a cui può andare incontro un impianto sono riconducibili sostanzialmente alle infezione batterica e al sovraccarico masticatorio. “Il primo problema è maggiormente frequente in pazienti con storia di parodontite che risultano maggiormente esposti ad una possibile insorgenza di perimplantite batterica”, spiega Romeo, “anche se però bisogna sottolineare che uno dei principi fondamentali, per la stabilità sia dei tessuti duri che dei tessuti molli perimplantari, è la presenza di uno spessore osseo circonferenziale all’impianto di 1 millimetro. Laddove questo non c’è o addirittura vi sia una non completa sommersione della superficie implantare (oggi rugosa in praticamente tutte le linee implanatri), il rischio di colonizzazione batterica è elevatissimo con tutte le conseguenze immaginabili. Quindi possiamo dire che, in alcuni casi, vi sia una responsabilità dell’operatore, che però non è dimostrabile a posteriori”.

Detto questo, Romeo fa però un’analisi che ridimensiona in parte il problema. “La prevalenza della periimplantite (patologia causata dagli stessi batteri che determinano la parodontite)”, spiega, “è molto alta, come molto alta, peraltro, è la prevalenza della parodontite. D’altra parte bisogna considerare che la principale causa di perdita degli elementi dentari è proprio la parodontite e quindi il candidato per eccellenza all’utilizzo di impianti in odontoiatria è proprio il paziente con storia di parodontite. Questa patologia è una patologia molto subdola perché può non dare alcun sintomo percepibile da parte del paziente, fino alla comparsa di una franca sintomatologia legata a riassorbimenti ossei avanzati che spesso sono poi difficilmente trattabili”.

Le altre complicanze sono sostanzialmente di tipo bio-meccanico. “Per nostra fortuna, prima che sia interessata l’osteointegrazione”, spiega Romeo, “sono presenti molti punti del sistema sui quali si scarica la forza masticatoria e che vengono interessati prima che il sovraccarico si espliciti sulla giunzione osso-impianto. Avremo pertanto complicanze protesiche (chipping del rivestimento esteteico), complicanze a carico del sistema protesico implantare (svitamento delle viti di fissazione delle protesi sugli impianti, piuttosto che svitamento o frattura delle viti di fissazione dei monconi implantari) e solo per ultimo, ma con bassissima prevalenza, perdita dell’osteointegrazione da sovraccarico”.

Anche per Romeo il controllo periodico è importante e deve essere individualizzato.“In un paziente con buona motivazione e con buona capacità di controllo dell’igiene orale”, dice, “personalmente suggerisco due controlli clinici annui, con un controllo radiografico ogni due anni, a meno che non vi siano segni clinici di presenza di quadri patologici”. Ma tutto questo non basta. “La migliore prevenzione dell’insorgenza di complicanze, per qualunque atto terapeutico”, conclude Romeo, “è l’applicazione puntuale e attenta dei principi oramai noti di identificazione dei fattori di rischio, compresi quelli legati all’operatore (curva di apprendimento). Fare questo diminuisce in maniera drastica l’incidenza delle complicanze”.

Implantologia, le complicanze nel tempo - Ultima modifica: 2013-07-01T14:06:10+00:00 da Redazione

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