Hai sacrificato tutto per il lavoro, hai rinunciato alle ore più belle per la carriera e i riconoscimenti e adesso, per colpa di chi avrebbe invece dovuto tutelarti, è tutto finito!
Non è giusto! Qualcuno dovrà pagare. Nei momenti di crisi, si sa, ci si arrovella su come portare a casa qualche spicciolo in più per arrivare a fine mese. E non par vero quando la vita ti pone davanti un’opportunità, seppur brutta, da cogliere al volo. In totale onestà e buona fede, è quello che verosimilmente ha pensato il protagonista del caso qui trattato che aveva dato, però, per scontato ciò che in diritto scontato non è mai: il nesso di causalità.
La refusione dei patimenti
Il D.Lgs. 81/2008 ha radicalmente modificato il mondo del lavoro, imponendo ai Titolari obblighi e doveri che per parecchi anni successivi alla sua entrata in vigore li hanno tenuti svegli la notte. Nuove figure da cooptare, nuovi documenti da stilare, nuove responsabilità cui sottostare. Da spettatrice esterna del mondo sanitario posso confermare che adeguamenti e progressi sono stati fatti.
Certo, tutto è perfettibile, ma rispetto a decine di anni fa oggi il Lavoratore ha tutele che neppure Gino Giugni avrebbe potuto sperare. L’imprevisto, però, è sempre dietro l’angolo e non può cogliere impreparati.
La sentenza odierna tratta proprio di questo, di un imprevisto, e di come il Lavoratore ne sia stato colpito e “affondato”. Ma nell’abisso non è riuscito a portare con sé il Datore di Lavoro, che l’Autorità ha giudicato esente da qualsivoglia responsabilità.
Solita debita premessa. Anche questa volta i fatti che hanno interessato l’Autorità non riguardano l’Odontoiatria. Mi si permetta una considerazione personale: la penuria di sentenze in ambito odontoiatrico mi fa sperare in una diminuzione di contenziosi o, quantomeno, nell’esistenza di indirizzi giurisprudenziali chiari, conosciuti e conoscibili che possano essere di preventiva valutazione al fine di evitare l’insorgenza degli stessi.
Ciò non toglie che casi quali quello qui preso in esame possano comunque bene adattarsi anche alle realtà sanitarie, piccole o grandi che siano. Il Lavoratore aveva visto il riconoscimento amministrativo della propria invalidità da parte del Ministero da cui dipendeva, che gli attribuiva una neuropatia dipesa da causa di servizio. Sulla scorta di ciò chiedeva che l’Ente gli riconoscesse danni materiali per le spese sostenute per visite e cure mediche, danni patrimoniali quali differenza tra l’entità della retribuzione che avrebbe percepito ove non fosse stato dispensato e l’entità della pensione privilegiata, per tutti i venti anni di vita lavorativa residua, sempre danni patrimoniali quali perdita delle chance di progredire nella carriera, danni non patrimoniali, danni biologici (permanente e temporaneo) e danni morali.
Così convinto che l’intervenuto riconoscimento della causa di servizio fosse più che sufficiente per ottenere la refusione dei suoi patimenti, ometteva di dimostrare l’esistenza del nesso di causalità tra l’evento dannoso e la nocività dell’ambiente di lavoro. La causa quindi era persa, senza se e senza ma.
Inadeguatezza presunta
Statuisce infatti l’Autorità adita “Come già ricordato, XXX fonda la propria domanda sull’art. 2087 c.c., il quale stabilisce che l’imprenditore - ma la norma si applica pacificamente a tutti i datori di lavoro, comprese dunque le Amministrazioni, è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
La responsabilità del datore di lavoro ha natura contrattuale e rinviene la propria fonte nel contratto di lavoro, il quale, ai sensi dell’art. 1374 c.c., è integrato dall’ art. 2087 c.c., che prevede doveri di prestazione finalizzati ad assicurare la tutela della salute del lavoratore”.
Inoltre, appunto perché la responsabilità del datore di lavoro è contrattuale, il riparto dell’onere probatorio è regolato dall’articolo 1218 c.c.: spetta dunque al lavoratore dimostrare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, l’inadempimento del datore di lavoro e i danni conseguenza, mentre sul datore di lavoro incombe l’onere di provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile, e cioè di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitarlo, e che gli esiti dannosi sono stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile”.
In altre parole, la prova della responsabilità datoriale, ai sensi dell’art. 2087 c.c., “richiede l’allegazione da parte del lavoratore, che agisce deducendo l’inadempimento, sia degli indici della nocività dell’ambiente lavorativo cui è esposto, da individuarsi nei concreti fattori di rischio circostanziati in ragione delle modalità della prestazione lavorativa, sia del nesso eziologico tra la violazione degli obblighi di prevenzione e i danni subiti”.
In sintesi, “Poiché la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. è di natura contrattuale, ai fini del relativo accertamento incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito a causa dell’attività lavorativa svolta un danno alla salute l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento; mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l’onere di provare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di avere adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno stesso”.
Resta comunque fermo che “la responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo di prevenzione di cui all’ art. 2087 c.c. non è una responsabilità oggettiva, ma colposa, dovendosi valutare il difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire danni per i lavoratori, in relazione all’attività lavorativa svolta, non potendosi esigere la predisposizione di misure idonee a fronteggiare ogni causa di infortunio, anche quelle imprevedibili”. Secondo la condivisibile giurisprudenza, la responsabilità dell’Amministrazione datore di lavoro non è di tipo oggettivo, ma colposo: se il rischio concretizzatosi non era ragionevolmente preventivabile, allora nessun rimprovero può essere mosso al datore di lavoro per non aver adottato misure atte a prevenirlo.
L’articolo 2087 c.c., giova ripeterlo, non pone in capo al datore di lavoro un obbligo di rispettare “ogni cautela possibile e diretta a evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a rischio zero quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile; egualmente non può pretendersi l’adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente impensabili”: è del resto evidente che, se si concludesse in senso opposto, ciò avrebbe come conseguenza l’ascrivibilità al datore di lavoro di qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile e inevitabile, mentre “non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate; è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto”.
Implicazione logica
Ogni azione ha la sua conseguenza. Questo concetto, forse il primo che un genitore insegna ai propri figli, è terribile nella sua banale semplicità. Non c’è salvezza, non c’è via d’uscita. E per quanto nella realtà sia sempre imprescindibilmente vero, in diritto tuttavia non è mai scontato ed è sempre da dimostrare. Ad “A” consegue “B”? Sempre, nella vita… forse, nel diritto. Ma se la consequenzialità è provata, non c’è più scampo!