Consensus report della Federazione Europea di Parodontologia e Associazione Medici di Famiglia - Wonca Europe sulla relazione tra parodontopatie, malattie cardiovascolari, diabete e malattie respiratorie
Herrera D, Sanz M, Shapira L, Brotons C et al.. Association between periodontal diseases and cardiovascular diseases, diabetes and respiratory diseases: Consensus report of the Joint Workshop by the European Federation of Periodontology (EFP) and the European arm of the World Organization of Family Doctors (WONCA Europe). J Clin Periodontol. 2023 Jun;50(6):819-841
Le malattie cardiovascolari
Da alcuni anni queste due società scientifiche aggiornano collegialmente le conoscenze sui legami esistenti tra parodontopatie (PP) e le più importanti e diffuse malattie croniche. Basandosi su ampie revisioni critiche delle pubblicazioni disponibili, ne è risultato che la parodontite si associa in modo indipendente da altri fattori coesistenti con malattie cardiovascolari (Mcv), diabete, broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco), apnea ostruttiva notturna (Osa) e complicazioni da Covid-19. Data l’esistenza di queste importanti relazioni gli autori auspicano una maggiore collaborazione tra medici di famiglia e specialisti. Per immaginare l’ importanza della questione, basta considerare che le Mcv rispondono del 32% di tutte le morti a livello globale, posizionandosi così al primo posto, mentre le parodontopatie interessano quasi la metà degli adulti di tutto il mondo. Il meccanismo basilare che le connette è l’aumento dei livelli di molecole mediatrici dell’infiammazione (come la proteina C reattiva) causato dall’ingresso nel sangue dei batteri parodontali. Inoltre, sono stari rilevati anche l’aumento di produzione di Ros (composti dell’ossigeno altamente reattivi) da parte dei leucociti neutrofili e dislipidemia (aumento del colesterolo totale e delle Ldl). Dal punto di vista epidemiologico è confermata l’associazione tra PP, malattia coronarica, rischio di infarto miocardico e malattie cerebrovascolari; come corollario, infine, è stata osservata la compresenza di PP e disfunzione endoteliale, rigidità arteriosa, calcificazioni arteriose, alterazioni della tonaca intima carotidea. Mancano ancora, tuttavia, prove convincenti di quella che potrebbe essere una nuova terapia, cioè non è ancora dimostrato che il trattamento parodontale, magari nella sua forma più semplice, possa ridurre il rischio di Mcv anche se i dati disponibili suggeriscono una riduzione dell’incidenza di eventi cardiovascolari acuti. Purtroppo non sono in corso studi di tipo randomizzato e prospettico e l’unico studio sulla prevenzione secondaria di eventi acuti cardiovascolari non ha riscontrato differenze significative tra soggetti in trattamento parodontale rispetto ai controlli mentre è dimostrata una riduzione significativa dei livelli di proteina C reattiva e interleuchina 6 ma non di altri indici di rischio cardiovascolare.
Il diabete tipo 2
Passando al diabete tipo 2, che nel 2019 affliggeva circa il 10% della popolazione mondiale, l’importanza della collaborazione degli odontoiatri coi medici di famiglia è ancora più grande: si stima, infatti, che solo in Europa ci siano 22 milioni di diabetici inconsapevoli che, presumibilmente, si recano dal dentista a intervalli più o meno regolari. Anche in questo caso il legame patogenetico sta nella risposta infiammatoria che segue alla batteriemia e all’iperglicemia. Sono inoltre documentati gli effetti negativi sulla guarigione dei tessuti parodontali da parte di proteine o lipidi che si legano con i glucidi e sono in grado di alterare le funzioni cellulari legandosi alle membrane. Se l’effetto del diabete non controllato sulle PP è acquisito da tempo, la relazione inversa è ancora sotto esame ma le evidenze sono promettenti e basate su ricerche metodologicamente valide. La parodontite grave, per esempio, si associa in modo significativo all’aumento dell’emoglobina glicosilata (HbA1c) sia nei diabetici sia nei soggetti sani e si è osservato che la gravità delle PP è proporzionale al rischio di insorgenza di iperglicemia non diabetica, diabete tipo 2 e alla gravità delle sue complicanze (in particolare retinopatia e neuropatia). Ricerche cliniche hanno confermato che HbA1C può ridursi nei diabetici di un valore oscillante tra 0,36 e 0,6 % a distanza di 3-4 mesi dal trattamento parodontale; in particolare, nell’unica ricerca durata 12 mesi e coordinata da autori italiani (D’Aiuto F, Orlandi M et al. Systemic effects of periodontitis treatment in patients with type 2 diabetes: a 12 month, single-centre, investigator-masked, randomised trial. Lancet Diabetes Endocrinol. 2018 Dec;6(12):954-965.) è stata registrata una riduzione dello 0,5%.
Tutto questo ha portato le autorità sanitarie di alcune nazioni come gli Usa a incentivare la diagnosi precoce di diabete coinvolgendo gli odontoiatri nell’ individuazione dei soggetti a rischio fornendo questionari specifici e kit per misurare HbA1c in studio. Analogamente in altre nazioni come il Regno Unito i medici di famiglia sono sollecitati a inviare dal dentista i pazienti diabetici.Le percentuali sopra possono apparire esigue eppure, secondo gli autori, equivalgono all’effetto ottenibile aggiungendo un farmaco supplementare alla metformina. E’ disponibile anche un interessante studio di economia sanitaria che ha valutato il rapporto costo/beneficio di un investimento volto alla terapia delle PP di grado medio in soggetti non diabetici per un periodo di 10 anni prendendo come base le coordinate di sei nazioni europee Italia compresa. Ebbene, considerando anche i costi indiretti come le ore di lavoro perse, anche lo scenario più impegnativo (diagnosi e terapia del 90% dei casi di PP) risulta avere un bilancio positivo. Analisi simili su soggetti diabetici svolte negli Usa confermano il positivo rapporto costo/beneficio che avrebbe il trattamento parodontale.
Le malattie respiratorie e il covid-19
Di questo gruppo nosologico fa parte la broncopneumopatia ostruttiva (Bpco) che entro il 2030 diventerà prevedibilmente la terza causa di mortalità a livello mondiale. Le ricerche disponibili depongono per un’associazione significativa con le parodontopatie; in particolare è documentata una minore capacità funzionale del 5% misurata col rapporto FEV1/FVC (Volume espiratorio massimo in 1 secondo/ Capacità vitale forzata). Alla base di questo effetto ci sarebbero i microrganismi aspirati che contribuirebbero alla disfunzione dell’endotelio respiratorio e alla flogosi oltre al noto aumento dei mediatori dell’infiammazione circolanti. Questo porterebbe anche al confermato aumento di rischio di Bpco in presenza di PP mentre la scarsità di studi non permette conclusioni affidabili su un eventuale aumento di rischio per le complicanze né sul beneficio del trattamento parodontale in termini di funzionalità respiratoria. Per i medesimi motivi non vi sono indicazioni certe riguardanti l’asma. Per l’apnea ostruttiva notturna, invece, è certa l’associazione significativa tra PP, aumento di rischio e gravità di questa patologia mentre non vi sono dati sull’eventuale beneficio del trattamento parodontale. Anche l’infezione da Covid-19 può risultare più grave in presenza di PP portando a una maggiore incidenza di complicazioni (polmonite, ricovero ospedaliero) e di esito letale.
Data l’importanza dell’argomento, la rassegna di questo mese esce in forma monografica, essendo dedicata alla relazione tra malattie parodontali e sistemiche di tipo cronico, in particolare quelle cardiovascolari e il diabete. Da più di trent’anni si stanno accumulando dati clinici e sperimentali sulla loro interazione patogenetica, ma continuano a mancare studi clinici randomizzati che possano rispondere alla domanda più importante e cioè se il trattamento parodontale sia in grado di ridurre il rischio di infarti, ictus, eccetera. Leggendo un articolo lontano nel tempo (Beck J et al. Periodontal disease and cardiovascular disease. J Periodontol. 1996 Oct;67(10 Suppl):1123-37) si può vedere che la strada da percorrere era già ben tracciata: “l’associazione può dipendere da una modalità di risposta infiammatoria che aumenta il rischio di aterosclerosi”, scrivevano gli autori anche in base a uno studio a coorte su 1147 uomini durato 4 anni dal quale emergeva un’associazione tra perdita di osso alveolare e incidenza di coronaropatie. Quali potrebbero essere ora le nostre conoscenze e i vantaggi per la salute pubblica se la ricerca avesse seguito un percorso più coordinato e lungimirante?
Lo screening dei fattori di rischio del diabete e delle malattie cardiovascolari negli studi odontoiatrici
Doughty J, M Gallier S, Paisi M, Witton R, J Daley A. Opportunistic health screening for cardiovascular and diabetes risk factors in primary care dental practices: experiences from a service evaluation and a call to action. Br Dent J. 2023 Nov;235(9):727-733.
Gli autori forniscono un’interessante anteprima di quello che potrebbe succedere se gli odontoiatri eseguissero di routine alcuni semplici accertamenti diagnostici per individuare persone con rischio cardiovascolare o diabetico. Ai pazienti di due studi del Regno Unito è stata offerta la possibilità di sottoporsi a una serie di accertamenti, tra cui misurazione della pressione, dell’indice di massa corporea, della glicemia e della lipidemia capillare dopo essere stati informati delle possibili relazioni tra parodontopatie e malattie croniche. Su più di 12mila persone solo il 6% circa ha accettato di sottoporsi (età media 52 anni). Di essi il 78,4% aveva valori pressori al limite o superiori al normale mentre il 16,7% presentava ipercolesterolemia e il 3,3% iperglicemia. L’indice di massa corporea risultava superiore al normale nel 26% dei casi. Secondo uno studio citato nell’articolo se i dentisti del servizio sanitario pubblico eseguissero questi accertamenti sugli ultraquarantenni, si potrebbero risparmiare più di 48 milioni di sterline in tre anni.


