Un modello prognostico terapeutico per aiutare il team odontoiatrico ad attribuire un profilo di rischio futuro pensato specificatamente per il paziente parodontale-implantare. Un modello vincente per la motivazione del paziente e per la sua aderenza alle terapie programmate che consente di dare un valore aggiunto alle nostre riabilitazioni.
Gli ultimi 30 anni dell’odontoiatria mondiale sono stati caratterizzati indubbiamente dalla crescita esponenziale dell’implantologia. Da disciplina in mano a pochi esperti è diventata nei decenni una procedura che la maggior parte degli studi odontoiatrici è in grado di offrire, o per esecuzione diretta o per mano di consulenti esterni.
Le motivazioni di questo incremento sono molteplici: in primo luogo, le tecniche chirurgiche e protesiche si sono semplificate negli anni, con protocolli ripetibili e certificati da decenni di letteratura, riducendo i costi per il paziente e limitando l’invasività e i disagi postoperatori. Inoltre, molti pazienti desiderano come prima scelta un recupero estetico e funzionale della masticazione tramite dispositivi fissi, anziché ricorrere ad altre soluzioni come protesi mobili o ponti che prevedano il sacrificio di tessuti sani di denti adiacenti alle edentulie. In ultima analisi, non va ovviamente sottovalutato il fatto che l’implantologia ha avuto un incremento anche perché rappresenta una fonte di reddito decisamente importante per il bilancio economico di molte strutture sanitarie che hanno deciso di specializzarsi in questo campo.
Tuttavia, la realizzazione di una riabilitazione orale implantosupportata, sia essa un elemento singolo o una soluzione complessa, non può e non deve oggi rappresentare il punto di arrivo né per il paziente né per l’odontoiatra e il suo team. Oggi, infatti, grazie alle nostre conoscenze, non abbiamo nessuna difficoltà a realizzare una riabilitazione su impianti, anche in casi di grave atrofia ossea, per cui si può ricorrere a tecniche rigenerative.
Semmai, il punto critico che la moderna odontoiatria sta cercando di affrontare, non sempre con successo, è la possibilità di “garantire e garantirsi” che il proprio operato nella bocca del paziente possa durare per lungo tempo o, almeno, per il tempo che il paziente si aspetti ragionevolmente che esso possa durare.
Siamo abituati a chiamare questo argomento appena descritto come “mantenimento implantare”, tema dibattuto e raccontato negli ultimi anni da dentisti e igienisti che, di fronte ad un numero sempre maggiore di impianti circolanti, devono fare i conti con tecniche e strumenti necessariamente diversi da quelli dedicati agli elementi naturali. Ancora di più, siamo dovuti diventare esperti anche delle patologie tipiche degli impianti, come la mucosite perimplantare e la perimplantite, patologie subdole e difficili da controllare e di cui abbiamo imparato le diversità rispetto a gengivite e parodontite.
In tempi recenti abbiamo acquisito anche notevoli conoscenze relative al biofilm orale, realizzando che il biofilm cambia mentre si instaura una patologia e che alcune patologie, come proprio la perimplantite, sono caratterizzate da una ripetitività nella tipologia di microrganismi patogeni presenti. Tuttavia, la realtà dei fatti insegna che i protocolli di mantenimento implantare non si sono evoluti di pari passo con le conoscenze, limitandosi a introdurre a volte solo nuovi strumenti, tecnologie (come laser o fototerapia), principi antisettici descritti come rivoluzionari e poca altra sostanza.
Secondo uno dei più grossi studi di prevelanza della malattia1, il 45% dei pazienti mostra, dopo una media di 9 anni, segni di perimplantite di entità lieve, mentre il 14,5% di entità medio-grave. Ma nel momento in cui come popolazione di professionisti odontoiatrici la statistica medica, la letteratura e gli opinon leader dai palchi dei congressi ci dicono che siamo costretti a fronteggiare ormai quotidianamente sempre più danni irreversibili ai tessuti di supporto implantare, siamo a questo punto sicuri che fissare una seduta di richiamo periodica, prescrivere un qualsiasi antisettico o consegnare lo stesso identico strumento da igiene meccanica a tutti i pazienti solo perché presentano uno o più impianti sia la chiave del successo del sopracitato mantenimento? Cosa possiamo fare di più per invertire questo che ci viene descritto come un inesorabile trend in costante crescita?
Un piano cooperativo paziente-professionista
Non tutti i pazienti sono uguali: sembra una frase retorica, ma la selezione del buon candidato alle cure parodontali o alla terapia implantare dovrebbe sempre essere fatta a priori, escludendo quei pazienti in cui fattori di rischio correlati alla patologia implantare, come per esempio il fumo, l’età, il diabete, alcune patologie immunodepressive, o anche solo la propensione e l’atteggiamento non idonei a seguire le richieste e le prescrizioni del professionista non siano ritenuti soddisfacenti.
Tuttavia a volte non è possibile selezionare esclusivamente candidati ideali e a volte anche quelli con tutte le carte in regola prima delle terapie, dopo le terapie, cambiano in peggio l’atteggiamento, soprattutto se non correttamente motivati. Sebbene da anni esistano diversi strumenti di valutazione del rischio parodontale-perimplantare ideati per aiutare i clinici nell’impostazione di un programma di mantenimento più idoneo possibile2,3, non esiste un’uniformità di vedute anche tra i professionisti più esperti4. Dall’altro lato, il paziente che si sottopone, sborsando anche ingenti somme, a terapie riabilitative implantari e parodontali richiede spesso una specie di “garanzia” di durata delle terapie, cosa che va ben oltre a quanto la medicina possa offrire ma cui, al giorno d’oggi, non possiamo esimerci di dare una risposta valida e credibile. Quindi, la lettura corretta di tutto quanto sopra descritto, unito a un piano di protezione delle nostre terapie che deve essere condiviso col paziente, sono ritenuti i punti fondamentali di un mantenimento di successo, con reciproca soddisfazione di medico e paziente.
Quello che allora viene suggerito è di suggellare una vera alleanza terapeutica tra l’odontoiatra curante, l’igienista dentale e il paziente al termine della fase attiva di terapia, cura parodontale o riabilitazione implantare che sia. In pratica, deve essere predeterminato il percorso condiviso di mantenimento, la valutazione iniziale del paziente, il suo inquadramento nonché le rivalutazioni periodiche, non fini a sé stesse o a una mera raccolta di dati clinici, bensì a determinare azioni e variazioni del nostro atteggiamento o di quello del paziente.
Il paziente stesso si deve sentire partecipe e non un attore passivo della visita in studio, condividere la finalità delle sedute e delle prescrizioni domiciliari, conoscere i rischi.
Niente di nuovo si potrebbe dire, ma la vera innovazione è fare in modo che il paziente non possa rinunciare a seguire le nostre indicazioni, pena la perdita di salute, garanzie di durata e risultati, e altri vantaggi che possiamo offrire. Questo si realizza in diverse fasi, in cui inizialmente ancora non possiamo sapere come il paziente agirà dopo le terapie, ma possiamo solo affidarci ai parametri oggettivi e alla sua storia clinica nel nostro studio. Si parte quindi dall’attribuzione di un profilo di rischio parodontale-perimplantare.
Il team odontoiatrico (medico, odontoiatra e igienista dentale) stabiliscono, sulla base dei fattori di rischio sistemici e locali, una specifica classe di rischio del paziente in modo da pianificare la frequenza e le modalità della terapia di mantenimento personalizzata.
La valutazione del profilo di rischio è un processo lento e richiede di incrociare informazioni anamnestiche, elementi ricavati dall’esame obiettivo e interpretare questi dati grazie a studi prognostici. Bisogna infatti annoverare nell’analisi dati sulla storia medica e odontoiatrica del paziente, radiografie orali ed extraorali, le principali variabili parodontali (indice di placca, sanguinamento al sondaggio, profondità di sondaggio, recessioni, coinvolgimento delle forcazioni, mobilità dentali patologiche, profilo osseo) e attribuire al paziente la corretta diagnosi parodontale (in termine di stadio e grado)5. Fortunatamente esistono oggi diversi strumenti ed algoritmi che ci aiutano nel programmare la corretta tempistica delle sedute di mantenimento2,3 e, indirettamente, di predire la prognosi del paziente. Va poi precisato come alcune di queste variabili raccolte, oltre ad avere un peso relativo (odds ratio) maggiore di altre nell’influenzare la prognosi, offrono maggiori informazioni come indicatori di progressione della malattia. Tra questi sicuramente i più importanti sono il fumo, il diabete e una pregressa storia di parodontite.
In una recente revisione6 sull’evidenza scientifica a supporto della programmazione del mantenimento parodontale gli autori sottolineano:
- nei pazienti sani o con forme lievi di malattia parodontale, è possibile mantenere condizioni cliniche stabili con richiami, al massimo, con frequenza annuale.
- In pazienti con forme medie e gravi di parodontopatia l’evidenza scientifica suggerisce un protocollo di mantenimento con frequenza da 2-4 mesi.
- Dati ricavati da studi retrospettivi mostrano come la quota di siti affetti residui (tasche parodontali residue con sanguinamento al sondaggio) siano una variabile importante per pianificare la frequenza delle visite. Gli sforzi degli operatori sanitari devono mirare proprio alla riduzione di questi siti con malattia sia durante la fase attiva di terapia sia durante la terapia di supporto.Meno ricca è la letteratura internazionale di revisioni sistematiche o studi longitudinali sul mantenimento del paziente con impianti e la prevenzione delle perimplantiti. Nonostante questo, condividendo con la malattia parodontale molti fattori di rischio, è intuitivo come anche la pianificazione del mantenimento del paziente implantare avrà molte delle stesse variabili da considerare. La chiave per la prevenzione della perimplantite passa attraverso la prevenzione della mucosite perimplantare. Come riportato da Jepsen et al.7 per il controllo della mucosite è cruciale il controllo dei fattori di rischio modificabili: presenza di sondaggio sulla dentatura residua e fumo. Monje et al.8 in una metanalisi sull’impatto del mantenimento nella prevenzione della perimplantite sottolineano il ruolo critico di una pregressa storia di parodontopatia come in grado di modificare l’incidenza della mucosite e della perimplantite. Numerosi sono poi i lavori che identificano, tra le variabili biologiche più importanti da considerare il controllo della placca, il sanguinamento al sondaggio, il fumo e il diabete9,10.
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- Monje A, Aranda L, Diaz KT, et al. Impact of maintenance therapy for the prevention of peri-implant diseases: a systematic review and meta-analysis. J Dent Res. 2016 Apr;95(4):372-9. doi: 10.1177/0022034515622432. Epub 2015 Dec 23.
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