Quali sono i fattori da considerare prima di decidere se curare un dente gravemente compromesso, per tentare di salvarlo, oppure estrarlo per poi sostituirlo con un impianto? Lo abbiamo chiesto a diversi esperti per comprendere come avviene il processo decisionale in questo delicato frangente
Un dente malato non lascia dormire sonni tranquilli, a volte neppure al clinico. Quando in gioco c’è la sopravvivenza di un elemento dentario di un paziente, infatti, sono molti i fattori che l’odontoiatra deve valutare con attenzione. La scelta non è mai banale, soprattutto se il dente, oltre ad avere problemi strutturali, è inserito in un quadro parodontale incerto, poco definito e che rende difficile la prognosi.
I tre elementi cardine della prognosi
«Se ci si mette nelle condizioni di voler fare bene il nostro lavoro, le difficoltà nell’arrivare a capire quando togliere un dente sono davvero tante», dice Luca Ferrantino, classe 1985, odontoiatra libero professionista, dottore di ricerca e professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano. «Volendosi affidare ai consigli della comunità scientifica, ci si accorge che le Linee guida sono pensate più per la terapia che non per la diagnosi; dunque, sono di poco aiuto per dirimere la questione di quanto possa durare un dente con una certa condizione patologica. La domanda andrebbe riformulata, chiedendosi quale probabilità abbia il clinico di stabilizzare il dente. A questo punto è possibile affidarsi alle linee guida e improntare una terapia con una più precisa prognosi. Normalmente, la prognosi è stabilita sulla base delle caratteristiche conservative, endodontiche e parodontali. Poi, entrano in gioco anche altre variabili nel decretare il punteggio da cui scaturisce la prognosi, perché è necessario tenere in considerazione il contesto generale, cioè la bocca del paziente, ma anche il piano di trattamento».
Come giungere alla diagnosi
Sono due gli strumenti con cui il clinico può inquadrare il caso e formulare una diagnosi precisa. «Il primo è l’osservazione diretta e dalle indagini strumentali, radiografia e TAC che consente di avere un’immagine tridimensionale molto utile», ricorda Ferrantino. «Questo è utile e importante quanto la compilazione della cartella parodontale, perché il grado di salute o di compromissione di un dente è molto legato, come già detto, alla situazione parodontale. A breve, anche nel nostro settore potremo farci aiutare dall’intelligenza artificiale, già allo studio in diverse branche della medicina. Si cominciano a leggere i primi articoli scientifici che lasciano ben sperare. Sarà necessario trovare l’equilibrio tra i due atteggiamenti opposti che facilmente si presenteranno, cioè quello di chi, entusiasta della novità, la abbraccerà in modo acritico e chi, invece, prevenuto, la rifiuterà a priori».
Quando è il paziente l’ago della bilancia
Non può essere trascurata la posizione del paziente che, nel manifestare il proprio desiderio di mantenere (o sacrificare) il dente gravemente compromesso, condiziona in qualche modo anche il clinico. «È vero, ma il condizionamento deve essere ponderato», avverte Ferrantino. «È necessario inquadrare il desiderio di voler conservare il dente a tutti i costi nel contesto generale. Sulle cure, per esempio, sono piuttosto intransigente, ossia non amo rimandarle e su questo punto mi dimostro molto fermo. Tuttavia, ci sono situazioni dove riesco a essere molto più indulgente, come nel caso del paziente che non vuole assolutamente estrarre il dente malato. Se le condizioni generali della bocca sono state stabilizzate e il dente ha comunque una prognosi incerta, ma il paziente è fortemente motivato, allora, dopo averlo bene informato sulla situazione e senza sottacere nulla, posso anche assecondare il suo desiderio. Deve esserci però una richiesta esplicita, perché altrimenti non proporrei mai una terapia con scarso valore prognostico».
Una scelta da pianificare con cura
«Se fino a ieri l’estrazione di un dente ormai non più recuperabile veniva effettuata grosso modo senza contestualizzarla, oggi l’approccio è cambiato, perché si è compresa l’importanza della fase estrattiva; essa deve essere ragionata al fine di avere la possibilità, quando le condizioni anatomiche dell’alveolo lo permettono, di inserire subito un impianto per garantire immediatamente la funzionalità e preservare l’estetica del paziente», spiega Giacomo Santoro, odontoiatra libero professionista a Milano e a Carpi (Modena), socio attivo di diverse società scientifiche tra cui l’Italian Academy of Osseointegration (IAO). «Quando l’alveolo non presenta invece caratteristiche tali da consentire l’immediato inserimento implantare, il clinico ha a disposizione altre strategie terapeutiche: dalla socket preservation, la procedura che consente di ridurre il riassorbimento osseo che può avvenire dopo un’estrazione, sino all’alveolar ridge augmentation, ossia la ricostruzione ossea vera e propria, indicata nei casi più difficili». Focalizzare l’attenzione a livello diagnostico sia sotto il profilo radiologico sia clinico permette di inquadrare meglio la condizione dell’alveolo e di decidere come procedere. «In questi ultimi anni sono stati fatti grandi progressi anche rispetto ai biomateriali, che consentono di trattare l’alveolo dopo l’estrazione. Ma la vera acquisizione, quella più preziosa, è la consapevolezza di quando sia importante pianificare con cura e attenzione la fase estrattiva per non avere poi brutte sorprese. Per il paziente questo significherebbe doversi sottoporre a interventi più lunghi, invasivi e costosi». Per questo ragione, è importante seguire i nuovi protocolli pre e post-estrattivi, rendendo sempre partecipe il paziente, che deve essere informato sui vantaggi che le metodiche di preservazione dell’osso alveolare hanno sul piano di trattamento complessivo. «Il paziente dovrà accollarsi un costo maggiore rispetto a quello necessario per una semplice estrazione; dovrà anche sottoporsi a più sedute, allungando i tempi, ma questo gli consentirà di avere vantaggi in un secondo momento». Dirimente è la possibilità di eseguire la TAC in studio. «Con questa apparecchiatura abbiamo la possibilità di valutare immediatamente l’altezza, la larghezza e lo spessore dell’osso, al fine di decidere quale tecnica implantare e/o di preservazione utilizzare, preparando in anticipo tutto il necessario».
Sguardo allargato e linguaggio franco
Servono questi due elementi per valutare quale sia la scelta giusta secondo Domenico Patarino, odontoiatra di Busto Arsizio, in provincia di Varese, città dove esercita la libera professione occupandosi di chirurgia parodontale e implantologia. «Oggi gli odontoiatri hanno più strumenti a disposizione per la cura dei denti e questo, se da una parte è una conquista, può paradossalmente rappresentare un problema se la cura diventa più una sfida dello specialista che non un’azione mirata e inserita nel giusto contesto. Il fatto di voler a tutti i costi salvare elementi dentari la cui prognosi può essere comunque poco fausta, per una riabilitazione futura può essere controproducente». La maggior parte dei pazienti accetta più volentieri l’ipotesi di procedere con una cura conservativa, seppur lunga e dagli esiti incerti, anziché sacrificare il dente; tuttavia, per non cadere in una situazione di stallo, l’odontoiatra deve parlare chiaro. «Con gli strumenti diagnostici a disposizione è possibile farlo in modo molto agevole ed efficace. Bisogna far vedere al paziente la situazione e mostrargli le diverse opzioni con onestà intellettuale. Se al paziente si spiega la verità, e la si mostra in chiave prospettica rispetto a quello che potrebbe accadere nel medio-lungo periodo, anche l’opzione terapeutica più negativa, cioè quella di estrarre il dente, può assumere un significato diverso. Sacrificare un dente ormai compromesso, ma avere più chance di preservare l’osso alveolare, con maggior possibilità di poter sostituire quel dente con un impianto, può rappresentare un grande vantaggio, soprattutto se quell’impianto, anche in una prospettiva futura, avesse un significato per così dire strategico, importante».
Il problema visto con gli occhi di un endodontista
Un dente può risultare irrimediabilmente compromesso per motivi strutturali o per ragioni parodontali. «Per assurdo, oggi raramente si verificano problemi endodontici così gravi da richiedere un’estrazione», dice Sandro Marcoli, endodontista di grande esperienza. «Nel nostro campo, i problemi che preoccupano di più sono prevalentemente di origine iatrogena, cioè causati accidentalmente dai nostri stessi interventi di cura. Un tempo preoccupavano moltissimo le perforazioni. Adesso ci sono procedure abbastanza sicure, con follow-up a lungo termine molto favorevoli, che consentono di recuperare i denti perforati. Anche la rimozione di perni e strumenti fratturati ha esiti buoni e non mette quasi mai a rischio la sopravvivenza di un dente danneggiato». Se queste sono buone notizie, ce n’è un’altra non molto rassicurante. «Purtroppo, in questi ultimi anni, se da una parte sono aumentate complessivamente le possibilità di cura di denti gravemente compromessi, dall’altra si è diffusa una certa tendenza a ridurre e semplificare i piani di trattamento. Un intervento di implantologia “vale” più di qualsiasi altro trattamento conservativo e restaurativo, pertanto può accadere che l’odontoiatra rischi di cedere alle pressioni delle assicurazioni o dei pazienti stessi che preferiscono poter contare sul rimborso di un trattamento certo, anziché rischiare di dover pagare di tasca propria magari anche solo parte delle cure per salvare un dente dal futuro incerto». Con il rischio di doverlo poi comunque sacrificare a breve, magari perché le terapie non hanno portato gli esiti sperati.
«Il dente naturale è dotato di strutture parodontali sottilissime che nessuna riabilitazione implantare è in grado di imitare e nemmeno può sostituire»
«Su questo punto, la letteratura mostra altre evidenze e cioè che i denti sottoposti a cure adeguate resistono a lungo, più di quanto si immagini», rassicura Marcoli. «E un dente naturale è sempre da preferire rispetto a un impianto. Il dente naturale è dotato di strutture parodontali sottilissime che nessuna riabilitazione implantare è in grado di imitare, né può sostituire. C’è una sofisticatissima vascolarizzazione tra la parete del dente e l’osso, che ovviamente gli impianti non hanno, perché l’impianto, sia chiaro, è un eccellente presidio per ovviare alla mancanza di un dente, ma non è un dente naturale, che fino all’ultimo è bene preservare. Perché ciascun dente ha un valore in sé, ma a volte può contare ancora di più se considerato nell’economica complessiva della bocca di quel dato paziente».