Le parole hanno un peso, un significato che va oltre l’uso quotidiano e affonda le radici nella loro etimologia. Personalmente, pur avendo seguito un percorso di studi molto scientifico e meno classico, ho sempre cercato di risalire all’origine dei termini, comprenderne il senso più profondo, anziché limitarmi al significato convenzionale che il linguaggio condiviso ci impone.
In un’epoca dominata da neologismi e anglicismi e in cui siamo sommersi da un flusso incessante di informazioni provenienti dai media, penso ci sia ancora una volta il bisogno di soffermarci a riflettere sul valore delle parole in ambito sanitario.
Non si tratta di stabilire quale sia il termine “giusto” da usare, ma di capire come la scelta tra “cliente”, “paziente”, “persona” o altre definizioni possa modificare la percezione del nostro ruolo, sia nel modo in cui viviamo la nostra professione, sia agli occhi di chi si affida a noi.
Questo viaggio alla scoperta della ricchezza semantica del linguaggio sanitario si fa ancora più complesso quando lo si applica all’odontoiatria, dove il lessico deve adattarsi a una duplice identità: quella del dentista-professionista e quella del dentista-imprenditore. Questa distinzione svela sfumature di significato spesso inattese, che non riguardano solo la comunicazione, ma toccano aspetti profondamente etici e morali della professione medica.
In sostanza, cos’è un paziente?
La Legge sui Diritti dei Pazienti e degli Utenti definisce un paziente come «una persona che si rivolge ai servizi sanitari richiedendo assistenza sanitaria, o a cui i servizi sanitari forniscono o offrono assistenza sanitaria, a seconda dei casi».
Il termine “paziente” deriva dal latino patiens, patientis, participio presente del verbo patior, che significa “soffrire”, “sopportare”. In origine, indicava chi affrontava una condizione di difficoltà o dolore in modo passivo.
Nel contesto medico, il significato si è evoluto per identificare chi riceve cure, mettendo in evidenza il ruolo di chi affronta la malattia con resilienza.
È chiaro che questo termine non si adatta a molte delle persone che oggi si rivolgono agli studi dentistici. Non è necessario essere malati, e il semplice fatto di esserlo non basta: per essere considerati pazienti in senso legale, è necessario entrare in contatto con professionisti sanitari.
Dove tracciamo i confini del concetto di paziente?
Ad esempio, una persona che prenota una prima visita per uno sbiancamento dentale o per una riabilitazione estetica con faccette non sarà considerata un paziente nel senso medico tradizionale, poiché non è malata né ferita. Tuttavia, rientra nel concetto legale di paziente, in quanto richiede l’assistenza di un dentista.
Alcuni preferiscono quindi utilizzare il termine "cliente", che può essere definito in senso generale come colui che acquista un prodotto o un servizio in cambio di un corrispettivo. Spesso viene assimilato al consumatore, ovvero a chi utilizza un bene o usufruisce di un servizio di qualsiasi natura. L’etimologia offre in questo caso ancora meno aiuto. In latino, cliens designa una persona che si mette sotto la protezione di un uomo potente o, in altre parole, non è particolarmente più moderna o neutra di «paziente».
Molti considerano inappropriato usare termini commerciali per descrivere la relazione tra un professionista sanitario e chi si rivolge a lui per ricevere aiuto. Questo tipo di terminologia implica che il dentista sia un fornitore e il paziente un acquirente di servizi.
La metafora del “cliente” è infelice, poiché orienta la medicina verso una dimensione puramente economica, riducendo e banalizzando la relazione medico-paziente. Una dinamica da “cliente” sembrerebbe incompatibile con i valori fondamentali della medicina, che si basano sull’impegno a offrire assistenza alle persone. Questa differenza etimologica rivela quindi già una distinzione concettuale significativa: mentre il cliente sceglie e acquista, il paziente si affida e riceve. Una sfumatura che incide profondamente sulla percezione del rapporto medico-paziente. Per superare questa apparente contrapposizione, è possibile seguire tre diverse strade. La prima, in ordine logico, consiste nel provare a mantenere entrambe le denominazioni, chiedendosi se possano effettivamente coesistere all’interno dello stesso soggetto.
Paziente e cliente: una distinzione necessaria?
Nella mia carriera professionale, come credo per molti altri, è capitato di fare esperienza con queste due definizioni. Una delle prime lezioni che ho imparato in università è stato quando un professore ci ricordava che “non abbiamo clienti, ma pazienti”. Sebbene questa affermazione mi sia sembrata eticamente corretta, dopo tanti anni di lavoro e considerando la realtà dei fatti, oggi mi sembra perlomeno parziale.
Il concetto di paziente, sebbene storicamente carico di significato, è cambiato nel tempo. In passato, il trattamento dei pazienti era caratterizzato da un paternalismo in cui un medico onnisciente e autoritario curava un paziente passivo e obbediente, creando uno squilibrio di potere. Oggi, invece, la normalità è un paziente esperto, competente e attivo, che presenta le proprie richieste all’odontoiatra. Chi non ha mai infatti incontrato pazienti che già conoscevano la propria diagnosi e, a volte, proponevano anche la terapia più adatta? Si potrebbe quindi sostenere che il ruolo del paziente sia così cambiato rispetto al passato che il concetto stesso potrebbe essere superato. Vista dall’altra prospettiva la differenza di significato tra questi due termini è piuttosto chiara: mentre si è seduti sulla poltrona del dentista, si è un paziente; non appena ci si alza per andare a pagare, si diventa un cliente. L’utilizzo del termine “paziente”, dunque, avrebbe l’intento di sottolineare che il dentista, in quanto professionista medico, agisce esclusivamente nell’interesse dell’altro. Questo concetto è cruciale, soprattutto quando si considera la duplice natura dell’odontoiatra: quella di professionista sanitario e quella di imprenditore.
Offrire prestazioni rispettando il codice deontologico e mantenendo un alto livello di serietà professionale è ciò che distingue il professionista serio da chi offre semplicemente un servizio con l’obiettivo di ottenere un profitto.
Alla luce di quanto detto, vi chiedo: quante sono le persone che si presentano in prima visita a seguito di una patologia dolorosa? E quante invece richiedono prestazioni specialistiche non urgenti, talvolta nemmeno indispensabili? Quante sono quelle che, come prima richiesta, chiedono uno sbiancamento dentale, faccette estetiche o filler, rispetto a chi si presenta con una pulpite o una pericoronite?
Dall’eseguire una cura immediata siamo passati al giorno d’oggi a predisporre un interessamento generale alla persona, dalla fase di soddisfazione delle necessità a quella della realizzazione dei desideri.
Superando l’ipocrisia, è emersa una questione che negli anni è diventata più formale che sostanziale. L’odontoiatra, scegliendo la libera professione, ha come conseguenza la necessità di investire risorse economiche e umane per gestire la propria attività privata. Deve quindi considerare che l’individuo che ricerca la soddisfazione dei suoi desideri, spinto a volte più dall’estetica che dalla funzionalità, non può più essere classificato come un “semplice paziente”.
Allo stesso tempo, la ricerca del giusto profitto deve sempre essere accompagnata da una solida etica professionale, creando un connubio di aspetti che determinano l’efficacia operativa del professionista.
Certo, le parole sono importanti perché orientano il pensiero collettivo, ma sono le azioni concrete a far la vera differenza. E questo diventa evidente quando gli odontoiatri che operano con coscienza riescono non solo a guadagnarsi la fiducia dei pazienti, ma a distinguersi per le loro qualità professionali e personali.
Riprendendo il fil rouge etimologico che attraversa tutto l’articolo, è poi interessante osservare come la parola “onorario”, che indica la retribuzione spettante ai professionisti come medici e odontoiatri, derivi dal latino honorarium. Questo termine originariamente si riferiva a un compenso concesso come “segno di rispetto o onore”, senza essere strettamente legato a un salario. Un dettaglio che sottolinea ulteriormente come l’etica professionale e il rapporto medico-paziente siano elementi fondamentali nel contesto in cui ci stiamo muovendo. E quindi? L’epilogo di questa vicenda sembra tratto da un racconto di Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. L’individuo si trova a vivere due fasi distinte: da un lato è paziente quando affronta un problema doloroso o si rivolge a uno specialista per delle cure, dall’altro è cliente quando deve valutare la contropartita economica in relazione alle sue esigenze e desideri.
Sarebbe forse più accurato descrivere una persona che oscilla continuamente tra questi due ruoli: inizialmente sceglie l’odontoiatra a cui affidarsi, magari influenzato dal passaparola o dalla pubblicità, ascolta le soluzioni proposte dallo specialista e, infine, torna a confrontarsi sul preventivo economico.
Non pensate che qui la questione finisca. Anche il dentista (o quanto meno il titolare dello studio) che è abituato a concentrarsi prevalentemente sull’aspetto medico della sua professione, si trova nella stessa situazione. Egli deve infatti bilanciare due ruoli che, seppur complementari, possono risultare difficili da gestire: quello di odontoiatra e quello di imprenditore. Spesso, infatti, non è facile coniugare l’attenzione al benessere del paziente con la necessità di gestire l’aspetto economico dell’attività.
Per crescere e affrontare questa sfida, la soluzione migliore è adottare un marketing etico (e oggi farsi conoscere anche in questo modo attraverso i nuovi strumenti di comunicazione è una esigenza) che metta al centro il benessere dell’individuo. Questo approccio consente di valorizzare il paziente sia dal punto di vista medico, comunicando in modo chiaro e trasparente lo stato di salute e le possibili soluzioni per il miglioramento, sia dal punto di vista economico, offrendo non solo le migliori terapie, ma anche quelle che risultano essere accessibili e adeguate alle possibilità economiche del paziente.
In conclusione, paziente e cliente rappresentano semplicemente due aspetti della stessa persona, che utilizza le informazioni ricevute sia dal dentista che dall’imprenditore per orientare la propria scelta. Tale decisione non si basa esclusivamente sulle necessità, ma anche, e sempre di più, sui suoi desideri.
Sai dirmi un sinonimo di paziente?
A volte, la soluzione più efficace è scegliere un termine che concili le diverse sfaccettature di quelli già in uso. Nel caso di “paziente” e “cliente”, l’obiettivo è individuare un’alternativa che ne racchiuda gli aspetti essenziali senza introdurre significati fuorvianti.
Alcuni suggeriscono “utente” o “consumatore”, ma entrambi i termini si riferiscono a qualcosa di diverso. “Utente”, ad esempio, designa chi usufruisce di servizi sanitari e sociosanitari senza necessariamente ricevere assistenza medica diretta. “Consumatore”, invece, rimanda più a una logica di mercato che mal si adatta all’ambito della cura e della salute.
Abbiamo mai chiesto cosa ne pensano le persone coinvolte?
Spesso si discute del termine “paziente”, ma raramente si dà voce a chi vive direttamente questa condizione. Molti malati non si identificano in questa parola e preferirebbero essere riconosciuti per altri aspetti della loro vita. Un uomo con asma, ad esempio, potrebbe sentirsi prima di tutto un padre e un professionista, piuttosto che un “paziente asmatico”. Lo stesso vale per le persone ospitate nelle case di cura, che vengono chiamate “residenti” proprio per evitare un’etichetta che li riduca alla loro condizione medica. Per questo motivo, anche espressioni come “persona in cura” o “in trattamento” risultano limitanti e poco adatte. Individuare un sostituto efficace per “paziente” non è quindi così immediato.
Alcuni termini evocano concetti interessanti, ma non sempre si rivelano appropriati, soprattutto quando si passa dall’ambito medico a quello odontoiatrico. Ad esempio, “sofferente” enfatizza il dolore e lo stato di malattia, ma non implica che chi soffre stia ricevendo cure. “Guarente”, al contrario, suggerisce un percorso di miglioramento e guarigione, ma la realtà è spesso più complessa, e inoltre il termine è poco diffuso e poco intuitivo per i più.
Se l’obiettivo fosse adottare un linguaggio più neutro e preciso, alcune alternative potrebbero essere più efficaci. “Soggetto” o “persona affetta da” descrivono la condizione in modo chiaro e oggettivo, evitando sia il linguaggio burocratico tipico del linguaggio medico, sia il coinvolgimento emotivo di termini più connotati.
Un’altra opzione è "assistito", che suggerisce l’idea di una persona che riceve cure o supporto, senza limitarne la definizione alla sola sfera medica.
Questo dibattito linguistico dimostra quanto le parole siano importanti e quante sfumature possano celarsi dietro un termine di uso comune. “Paziente” è una parola consolidata, ma se volessimo davvero sostituirla, quale sarebbe la scelta più adatta?
La pazientela, capovolgere le parole per vendere la realtà
La terza via, il neologismo. Quanti di voi hanno sentito o utilizzano il termine “pazientela”? Questa parola macedonia nasce dalla ovvia unione tra pazienti e clientela, in un matrimonio figlio del linguaggio della pubblicità dove le parole si mescolano per stimolare la curiosità e l’interesse del pubblico. Personalmente ne ho sentito parlare la prima volta in occasione della cessione di uno studio odontoiatrico tra due colleghi. Il venditore, dopo aver quantificato il valore immobiliare e dei materiali contenuti, ha estratto dal cilindro la “pazientela” per riferirsi all’immateriale valore degli assistiti che frequentavano lo studio (o più precisamente, al numero di persone presenti nel database).
Nel corso degli anni, il linguaggio ha subito una trasformazione continua, spesso influenzata dalle sensibilità culturali del momento. Molti termini, sia nel contesto medico che in quello quotidiano, sono stati sostituiti con espressioni considerate più rispettose: per fare alcuni esempi “disoccupato” è diventato “persona in cerca di occupazione”, “cieco” è stato sostituito con “non vedente”, e “bidello” è stato rimpiazzato da “collaboratore scolastico”. In alcuni casi, questi cambiamenti sono stati guidati dal desiderio di evitare termini che sarebbero potuti risultare offensivi, ma in altri casi le ragioni dietro queste modifiche non sono così chiare, suscitando domande sul reale scopo di tali trasformazioni.
Le parole non sono infatti mai neutre; determinano le azioni e plasmano il nostro modo di percepire la realtà. Cambiare le parole spesso equivale a cercare di cambiare la percezione che abbiamo di una situazione e quando i termini “professionista”, “prestazioni” e “paziente” vengono sostituiti da termini più legati al mondo del business, l’intento potrebbe essere quello di “vendere” una nuova visione. Se infatti riusciamo a far vedere la realtà sotto una luce diversa, possiamo anche spingere le persone a comportarsi diversamente.
Tuttavia, questo ragionamento non vuole suggerire che chi si definisce “imprenditore” abbia una visione meno etica dell’attività odontoiatrica, né di contro che tutti i professionisti agiscano sempre in modo impeccabile. La vera domanda che vogliamo qui porre è se questo modo di parlare e di pensare possa avere conseguenze importanti sul futuro della nostra professione.
Conclusioni
Fino ad ora, abbiamo esaminato i termini tradizionali e quelli più recenti: paziente, cliente, utente e assistito riflettono le diverse fasi di un percorso sociale e culturale complesso nel contesto sanitario, che ha portato a una trasformazione dei ruoli tra chi fornisce e chi riceve le cure. Quest’ultimo, infatti, sia in medicina che in odontoiatria si sta progressivamente “emancipando dalla malattia”, diventando sempre più protagonista nelle scelte riguardanti la propria salute. La sua partecipazione alle decisioni è in continua crescita, al punto che oggi può arrivare a prendere decisioni autonome, assumendo in alcuni casi una posizione di predominio rispetto al medico. In questo nuovo scenario, il paziente “esige” la cura, e pone le sue condizioni a un medico che da lui dipende economicamente.
Come anticipato nella premessa, non abbiamo risolto la ancora dibattuta questione su quale sia il termine più appropriato da utilizzare, semplicemente perché non esiste una parola in grado di racchiudere tutte le complesse sfumature di questo fenomeno. Tuttavia, siamo certi di aver sottolineato alcuni concetti chiave: la fondamentale necessità di un rapporto di fiducia tra medico e paziente (o qualunque termine preferiate usare); l’indispensabile etica professionale, anche quando si adotta un approccio più “imprenditoriale” nella propria attività; e infine, l’importanza di restare costantemente aggiornati sui cambiamenti che riguardano la nostra professione, senza mai ancorarsi a ciò che “ha sempre funzionato”, poiché l’evoluzione è rapida e continua.
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