Tentar non nuoce

Rate, acconti, saldi… tutto quello che l’odontoiatra ha ricevuto deve essere restituito al paziente quando condannato per danni conseguenti la propria opera professionale.

A cura di Mariateresa Garbarini

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Non se ne comprende il motivo, tanta l’ovvietà della cosa, ma la Corte d’Appello di Milano ha tenuto a ribadire che in un contratto d’opera professionale il risarcimento dei danni patrimoniali cagionati da un’eventuale attività dannosa ricomprendono anche tutti quegli importi dati a titoli di acconto sull’esecuzione della prestazione, il cui pagamento sarebbe, a seguito della condanna, privo di senso per la difformità, inutilità e contrarietà a quanto invece di interesse per il paziente stesso.

Il caso

A.S. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Monza il dottor E.M., odontoiatra, lamentando un comportamento imprudente e imperito nell’adempimento della prestazione professionale richiesta a causa della rottura parziale di un dente nonché un’inadeguata informazione sui trattamenti odontoiatrici che questi avrebbe posto in essere. Chiedeva il risarcimento dei danni tutti subiti, patrimoniali e non.

Il dottor M. respingeva ogni accusa, chiedeva il rigetto delle domande ricordando come la paziente, nel marzo del 2001, si fosse sottoposta a una radiografia panoramica completa, in quanto presentava la frattura di una vecchia otturazione eseguita oltre dieci anni prima da altro professionista. In sede di prima visita un altro professionista, il dottor V.M., compilava la scheda anamnestica relativa a interventi da effettuarsi in anestesia locale e solo successivamente il convenuto iniziava la preparazione per il posizionamento di una corona provvisoria in resina, informando la signora S. della possibilità di dover intervenire con una terapia canalare, che avrebbe potuto comportare una sensibilizzazione del dente in trattamento. La paziente opponeva un netto rifiuto alla devitalizzazione dell’elemento e il sanitario provvedeva con il posizionamento della corona definitiva. Fino ad allora la paziente non aveva mai riferito dolore.

Alla fine del mese di luglio 2001 la signora S. scientemente interrompeva le cure, ripromettendosi di proseguirle presso la località di villeggiatura, durante le ferie estive. L’odontoiatra, in considerazione del netto rifiuto opposto dalla paziente, provvedeva all’applicazione di una medicazione a base di ossido di zinco ed engenolo, al fine di disinfiammare l’elemento in trattamento, e provvedeva, di poi, al posizionamento della protesi in “vectris-targis”, materiale innovativo che consente di realizzare strutture prive di metallo. La paziente, dopo l’ultimo medicamento del 4 luglio 2001, non si presentava più presso lo studio dentistico, rivolgendosi invece all’Istituto Stomatologico di Milano, ove le era diagnosticata una necrosi gengivale con lesione da arsenico, non imputabile al convenuto non risultando tale sostanza nel 2001 più in commercio. La signora S. si rivolgeva, quindi, ad altro odontoiatria per riprendere le cure del caso. Nel 2009, a conclusione del procedimento di primo grado e sulla scorta di tali risultanze, il Tribunale di Monza dichiarava la responsabilità professionale del dottor M. e lo condannava a pagare alla signora S., a titolo di risarcimento del danno, la somma complessiva di euro 6.271,39, oltre interessi e rivalutazione dall’aprile del 2001 al saldo, e al pagamento delle spese di consulenza e di quelle di lite, affidando le motivazioni di tale condanna alla Consulenza (CTU) depositata agli atti in cui si riferiva che la sintomatologia algica lamentata dall’attrice fosse da collegarsi causalmente alle cure effettuate dal convenuto con imperizia e imprudenza. A nulla valeva la difesa del dottor M. circa l’opposizione avanzata dalla paziente, informata della possibilità di dover effettuare una terapia canalare, alla devitalizzazione del dente in quanto non solo tale circostanza era rimasta sfornita di prova ma ritenuta comunque irrilevante al fine di escludere la responsabilità: infatti, secondo l’Autorità giudicante il professionista avrebbe dovuto sapere che sarebbe stato inopportuno e incauto procedere alla ricopertura del dente senza prima devitalizzarlo, rifiutandosi di eseguire l’intervento qualora, come da lui affermato (ma non provato), la paziente si fosse opposta alla devitalizzazione. Inoltre, l’intervento effettuato dal dottor M. era di routine: spettava al medico provare che l’esito infausto (con un chiaro peggioramento delle condizioni di salute della signora che inizialmente presentava solo un dente rotto ma non dolorante) fosse dipeso da un evento imprevedibile. Orbene, tale prova non era stata fornita e, anzi, dalla consulenza espletata era emerso che quella verificatasi era una complicanza prevedibile da parte di un professionista di media diligenza. Concludeva sottolineando come, in ogni caso, l’imprudenza e l’imperizia si erano manifestate anche in relazione alla scelta delle sostanze applicate, le quali, a prescindere dal fatto che fossero o meno biocompatibili e certificate, avevano causato un peggioramento delle condizioni della paziente, facendo presumere che fossero inadeguate, quantomeno in relazione all’alta concentrazione e all’uso eccessivo con cui erano state impiegate.

Il dottor M. impugnava la sentenza avanti la Corte d’Appello di Milano.
I primi due motivi erano considerati dai Consiglieri generici, illogici e incomprensibili: il dottore infatti non contestava gli elementi fondamentali e costitutivi degli accadimenti, alla base della condanna di risarcimento, ma le singole voci indicate da risarcire, eccependo quelle che in realtà apparivano come mere semplificazioni lessicali.

Il terzo motivo di gravame era giuridicamente più articolato. L’appellante contestava come la signora S. avesse chiesto, oltre all’accertamento dell’assenza di un valido consenso informato, la condanna dell’odontoiatra al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali senza chiedere specificamente la dichiarazione della risoluzione del contratto, fatto che “avrebbe conseguentemente comportato la restituzione delle somme corrisposte al dottor M., anche solo a titolo di acconto per le prestazioni eseguite”. L’appellante affermava, quindi, non comprendere a quale titolo dovesse restituire l’acconto ricevuto.

La Corte riteneva dover disattendere anche questo motivo. Argomentava come il contraente inadempiente fosse obbligato al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 1453 Codice Civile. Nel caso di contratto di opera professionale i danni cagionati dalla prestazione dannosa comprendevano anche gli esborsi per acconti e corrispettivi richiesti dal professionista e anticipati dal cliente e il risarcimento dovuto si estendeva, quindi, anche alla restituzione al cliente dei corrispettivi e dei fondi che questi aveva dato, il cui pagamento diveniva “privo di causa in ragione della difformità di esecuzione dell’opera professionale rispetto alle regole della materia e nella considerazione della inutilità dell’opera e anzi della sua contrarietà all’interesse del cliente. Ove non fosse disposta la restituzione dei pagamenti, nella sfera patrimoniale del cliente – al termine dell’opera negligente o viziata da insufficiente perizia – risulterebbero definitivamente riversati gli effetti negativi e pregiudizievoli causati dalla cattiva prestazione dell’opera. … <omissis>
Se la prestazione professionale si deve giudicare totalmente inadempiuta e improduttiva di conseguenze positive, come nel caso in esame, non è dovuto alcun compenso al professionista e, venuta meno la causa del contratto di opera professionale, il pagamento del compenso integra una componente di danno per il cliente; tale danno deve essere risarcito mediante la restituzione dell’equivalente
”.

Di poi, il dottor M. lamentava non essere stato chiamato a chiarimenti dal CTU in merito alle modalità adottate per l’individuazione dei componenti della pasta devitalizzante (A.T.C. NOIBB52) utilizzata durante il trattamento terapeutico. L’odontoiatra sosteneva aver applicato alla signora S. una medicazione a base di ossido di zinco ed engenolo al fine di disinfiammare l’elemento in trattamento, considerata altresì la netta opposizione della paziente a essere sottoposta alla cura canalare. La richiesta di ulteriori chiarimenti non poteva che essere disattesa per il suo carattere meramente esplorativo. Ricordavano i Consiglieri della Corte d’Appello di Milano che “Ad incontrastato giudizio del consulente imperita è stata la decisione di utilizzare del mordenzante ad alta concentrazione che ha provocato necrosi pulpare e imprudente l’utilizzo successivo della pasta devitalizzante che ha creato linfo-adenopatia loco-regionale e flogosi a carico dell’elemento (dente) … <omissis> …e che vi era “stata cattiva gestione della fase di cementificazione del manufatto protesico”.

Nei confronti di questa valutazione tecnica l’appellante non ha mosso alcun argomentato motivo che fosse idoneo a contrastare con specificità il fondamento dell’argomentazione del primo giudice. E del resto il Tribunale ha considerato ulteriormente che “l’imprudenza e l’imperizia si erano manifestate anche in relazione alla scelta delle sostante applicate, le quali, a prescindere dal fatto che fossero o meno biocompatibili e certificate, avevano causato un peggioramento delle condizioni della paziente, facendo presumere che fossero inadeguate, quantomeno in relazione all’alta concentrazione e all’uso eccessivo con cui sono state impiegate”.

Neppure quest’argomentazione è stata contrastata nel suo fondamento logico-giuridico dall’appellante; ne consegue che sulla responsabilità e sull’imperizia del medico si deve ritenere intervenuto il giudicato, con l’effetto che un’ulteriore indagine tecnica e una nuova consulenza non potrebbero avere alcuna ricaduta utile a un’eventuale riforma della decisione del Tribunale.
Nulla da accogliere in merito al quinto motivo di gravame, relativo unicamente alla quantificazione delle spese processuali di primo grado, ritenute troppo alte dal dottore ma considerate invece congrue dalla Corte.

“Se la va, la ga i gamb”

Fa specie pensare come un professionista abbia potuto anche solo pretendere di non restituire gli acconti già ricevuti in forza di una prestazione poi risultata giudizialmente inadeguata e dannosa. L’assurdità di tale richiesta lascia credere come, in realtà, tale motivo di gravame non fosse altro che un buon tentativo che, in un auspicato attimo di disattenzione da parte dell’organo giudicante, avrebbe potuto anche portare a una buona decurtazione del dovuto. 

Tentar non nuoce - Ultima modifica: 2015-12-08T12:12:21+00:00 da Redazione

1 commento

  1. Purtroppo la consulenza di avvocati sconsiderati porta a scelte avventate e pericolose sia per il portafoglio sia per la reputazione. Basterebbe accertare l’uso dell’arsenico come devitalizzante, davanti un giurì di colleghi, per ricavare la cifra culturale e professione di parte attrice. La pubblicità di questa condanna è una vergogna collettiva per la perdita di stima verso tutta la classe dei dentisti.

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