Nanoparticelle antibatteriche: uso in endodonzia

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Si definisce nanomateriale un prodotto costituito in misura pari ad almeno il 50% di particelle a dimensioni nanometriche. Esse presentano diverse caratteristiche particolari: oltre alle dimensioni ultraridotte, un alto rapporto superficie/massa ed elevata reattività clinica. Le particelle possono essere classificate sulla base della loro origine (naturale o interamente sintetica) che sulla loro forma. Sono contemplate anche particelle funzionalizzate, che comprendono cioè un core, organico o inorganico, su cui sono attaccate macromolecole che fanno appunto da gruppo funzionale. Ormai da alcuni anni, prodotti di questo tipo hanno trovato una certa diffusione in ambito medicale. Possono essere considerate, per esempio, sostanze che manifestano un’efficacia nei confronti del film batterico (biofilm). Queste possono risultare particolarmente indicate nella pratica endodontica, nella quale la necessità di depurare lo spazio canalare dai più piccoli serbatoi infettivi può scontrarsi con difficoltà di natura chimica o meccanica riguardanti l’uso dei comuni irriganti. Si considerino dunque le principali.

Nanoparticelle: uso in endodonzia

 

Chitosano: forma deacetilata della chitina, costituisce un polimero (esattamente un polisaccaride) abbondantemente presente in natura. Manifesta numerose proprietà, anche antibatteriche, rivolte soprattutto sui gram-positivi. In particolare, la specieEnterococcus faecalis manifesta difficoltà di adesione su tessuto dentinale trattato con nanoparticelle a base di chitosano (CS-NP). Nel complesso, il potenziale del prodotto deve essere ulteriormente vagliato e in parte anche aggiustato, soprattutto dal punto di vista pratico, ma parrebbe promettente.

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Biovetri: questi prodotti costituiscono già una realtà clinica in ambito odontoiatrico e, in particolare, endodontico, grazie alle ormai comprovate capacità osteoinduttive. È ampio oggetto di studio la loro attività antibatterica, che dipende da alcuni fattori in grado di agire simultaneamente:

  • innalzamento del pH: deriva dal rilascio di ioni (Ca2+, Na+, PO43-, Si4+) in ambiente acquoso; queste stesse particelle sarebbero in grado di favorire il legame con i tessuti calcificati precipitazione di Ca/P
  • incremento della pressione osmotica
  • Le nanoparticelle hanno dimensioni comprese tra i 20 e i 60 nm. L’uso in forma di sospensioni sembra essere il più efficace nei confronti del biofilm, pur risultandolo comunque maggiormente sui batteri in forma planctonica.

L’argento manifesta diverse azioni di disturbo sulla biologia della cellula batterica: lega gruppi sulfidrilici presenti in alcune proteine e nel DNA, interferisce con la catena respiratoria e con la sintesi della parete. In ambito endodontico, l’obiettivo è di aggiustare il prodotto sia per quanto riguarda la somministrazione – a fronte di un tempo adeguato di esposizione gli effetti sembrano notevoli, anche sul biofilm – sia al fine di garantire la biocompatibilità.

In base a quanto affermato finora, le nanoparticelle possono costituire un’opzione alternativa nella detersione dei canali. Un’altra prospettiva consiste nell’incorporare le particelle all’interno dei sigillanti canalari, con il fine di prolungarne l’azione antibatterica, che comunemente non supera invece i 7 giorni.

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Nanoparticelle antibatteriche: uso in endodonzia - Ultima modifica: 2017-11-15T07:43:53+00:00 da redazione

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