La terapia implantare nel paziente parodontopatico

Una corretta igiene domiciliare e terapia di supporto parodontale hanno permesso il mantenimento di questo elemento per più di 15 anni. Cartella parodontale
Aglietta Marco

Riassunto

Nei pazienti affetti da parodontite avanzata ci si trova spesso, alla fine della terapia parodontale, nella necessità di riabilitare dei settori edentuli più o meno estesi. L’implantologia permette in un buon numero di casi di ottenere un risultato funzionale ed estetico soddisfacente. Tuttavia, il numero di complicazioni biologiche nel lungo termine non deve essere sottovalutato. Scopo di questa monografia è quello di discutere le indicazioni terapeutiche nel paziente parodontale con particolare riguardo ai benefici e ai rischi a lungo termine dell’implantologia. 

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Parole chiave: parodontite, impianti dentali, prognosi, piano terapeutico, successo implantare, sopravvivenza implantare

Summary

Some patients treated for advanced periodontal disease need the prosthetic rehabilitation of more or less large edentulous spaces. In a certain number of cases, implantology offers the better solution from the esthetic and functional point of view. However, the risk of biological complications should not be underestimated. Aim of the present article is to discuss the indications of implant therapy in the periodontal patient with regard to its benefits and risks on the long term period.

Key words: periodontitis, dental implants, prognosis, treatment plan, implant success, implant survival

 

L’avvento degli impianti osteointegrati ha rappresentato un passo estremamente innovativo della moderna odontoiatria e ha permesso di proporre e realizzare ricostruzioni protesiche fisse anche in pazienti altrimenti destinati a protesi rimovibili1. Il concomitante sviluppo di tecniche di ricostruzione e/o rigenerazione ossea, risolvendo la problematica legata al volume osseo disponibile per un corretto posizionamento implantare, ha inoltre limitato a un numero esiguo i casi dove l’implantologia non può essere effettuata. Questo ha portato a considerare gli impianti come una soluzione “definitiva” e di prima scelta sia da parte dei pazienti che di molti clinici. Con il passare degli anni, tuttavia, il numero di complicanze tecniche, ma soprattutto biologiche, è cresciuto in modo importante, rendendo necessaria una rivalutazione del ruolo degli impianti osteointegrati nella formulazione del piano di trattamento2,3. Questo è vero in particolar modo per quei pazienti che presentano una condizione parodontale compromessa, dove spesso il clinico si trova ad affrontare questioni che potremmo definire “spinose”:

  • ha senso investire tempo e denaro per salvare elementi dentali parodontalmente compromessi o conviene optare per una soluzione implantare?
  • in caso di lacune dentali da riabilitare, meglio una soluzione protesica su impianti o su denti naturali?

Inoltre i pazienti, che giustamente si sentono sempre più parte attiva del trattamento soprattutto nella fase iniziale in cui viene formulato il piano di cura, pongono spesso il quesito: “quanto costa e quanto dura un impianto?”. La risposta non è né scontata né semplice. Scopo di questa monografia è quello di fornire al clinico una risposta, per quanto possibile, a questi quesiti cercando di conciliare l’evidenza scientifica con l’esperienza clinica.

 

Successo e sopravvivenza degli impianti inseriti in pazienti parodontopatici

Numerosi studi clinici hanno dimostrato che gli impianti osteointegrati hanno una elevata predicibilità a lungo termine. Per parlare di elevata predicibilità bisogna però chiarire due concetti fondamentali che sono il successo e la sopravvivenza implantare (Figure 1a-1e). Per sopravvivenza si intende la presenza nel cavo orale di un impianto osteointegrato privo di sintomatologia4. I parametri per definire, invece, il successo implantare – descritti nell’VIII Workshop della European Federation of Periodontology4 – sono (Tabella1):

  • assenza di mobilità;
  • assenza di sintomatologia;
  • assenza di suppurazione;
  • assenza di radiotrasparenza peri-implantare;
  • PD ≤ 5 mm;
  • perdita ossea radiografica ≤ 0.2 mm/anno.

I primi studi sull’efficacia a lungo termine degli impianti dentali riportavano come “outcome” primaria la sopravvivenza implantare. In genere, la sopravvivenza implantare riportata nei pazienti con pregressa storia di malattia parodontale è più bassa rispetto a quella nei pazienti parodontalmente sani.  In ogni caso, diversi lavori hanno dimostrato un continuo miglioramento, arrivando a risultati eccellenti (>95% a 10-15 anni) e rinforzando la fiducia dei clinici nell’efficacia della terapia implantare. Considerando invece non la sopravvivenza ma il successo della terapia implantare, gli studi pubblicati nell’ultimo decennio hanno mostrato un quadro ben diverso da quello che vedeva l’Implantologia come una terapia affidabile “per tutti e per sempre”. In particolare, nonostante i dati su di un’alta sopravvivenza implantare siano stati confermati, molti lavori hanno dimostrato come i casi di peri-implantite siano un fenomeno tutt’altro che raro. Soprattutto alcune categorie di soggetti, come per esempio i fumatori e i pazienti con un quadro parodontale compromesso o una pregressa storia di parodontite, riportano nel corso degli anni un numero importante di complicanze biologiche. Alla luce dei numerosi studi condotti sugli impianti inseriti nei pazienti parodontopatici, la percentuale di sopravvivenza implantare a 10 anni si aggira intorno al 90-95% (Tabella 2). Karoussis et al.5 hanno dimostrato per primi come, sebbene la percentuale di sopravvivenza degli impianti inseriti in pazienti parodontopatici sia elevata, esista una notevole differenza tra pazienti parodontalmente sani e soggetti con pregressa malattia parodontale per quanto riguarda la percentuale di successo. Secondo questo lavoro, la percentuale di sopravvivenza degli impianti dopo 10 anni di follow-up è, rispettivamente, del 96,5% e del 90,5% per i pazienti parodontalmente sani e per i pazienti con pregressa malattia parodontale.

Il 79,1% degli impianti inseriti in pazienti parodontalmente sani non ha riportato complicazioni biologiche. Il dato corrispettivo nei pazienti con pregressa malattia parodontale era del 52,4%. È importante notare come, in questo lavoro, la differenza tra i due gruppi in relazione alla sopravvivenza implantare nei primi 7 anni di follow-up era praticamente inesistente. Questo perché il processo patologico caratterizzato dalla perdita ossea peri-implantare richiede tempo prima di provocare la completa perdita di osseointegrazione e dunque la perdita dell’impianto. Al contrario, la presenza di complicanze biologiche è un fenomeno che può manifestarsi fin dai primi anni di follow-up. Per questo studi che valutano la sopravvivenza implantare con un follow-up inferiore ai 10 anni sono da considerarsi poco indicativi sulla reale efficacia della terapia implantare. Recentemente, Roccuzzo e coll. hanno riportato i dati a 10 anni relativi alla terapia parodontale in pazienti con differenti situazioni parodontali e trattati con impianti a vite solida e superficie ruvida6,7 o micro-ruvida8.

 

I pazienti parodontalmente sani, definiti come coloro che non presentavano una compromissione parodontale in atto o pregressa, hanno riportato nel corso degli anni pochi problemi. Infatti, nessun impianto è stato perso e solo il 18% di questi soggetti ha avuto bisogno, nel corso del follow-up, di una terapia antibiotica e/o chirurgica per il trattamento di una complicanza peri-implantare. Anche i pazienti con pregressa storia di malattia parodontale hanno riportato un’alta sopravvivenza implantare (90-97% a 10 anni). Tuttavia, il numero di interventi (terapia antibiotica e/o chirurgica) effettuati nel corso degli anni per trattare delle complicanze a livello del tessuto di supporto implantare è stato elevato, arrivando quasi al 70% dei casi nei pazienti precedentemente trattati per parodontite avanzata. Questi risultati sono stati confermati da diversi altri lavori, e le più recenti linee guida internazionali invitano a considerare i pazienti con una pregressa storia di malattia parodontale maggiormente a rischio in caso di terapia implantare9. Va tenuto in considerazione che in tutti i lavori scientifici sull’argomento i soggetti definiti parodontali non presentavano, al momento della chirurgia implantare, una parodontite in atto, ma avevano già ricevuto un’adeguata terapia parodontale. L’inserzione di impianti in pazienti parodontopatici non trattati non solo comporta un elevato rischio per il fallimento della terapia, ma rappresenta una grave “malpractice”.

Perdita ossea intorno agli impianti inseriti in pazienti sani e in soggetti parodontopatici

Oltre a considerare le percentuali di successo e sopravvivenza, è anche interessante valutare la perdita ossea attorno agli impianti inseriti in pazienti parodontalmente compromessi. Una serie di studi10-12 ha dimostrato che gli impianti inseriti in pazienti parodontopatici hanno una perdita ossea radiografica maggiore se paragonati a quella registrata attorno agli impianti in pazienti parodontalmente sani dopo 10 anni di follow-up. Inoltre, la concomitanza di una pregressa malattia parodontale e del fumo di sigaretta aumentava in modo importante il riassorbimento osseo marginale a livello implantare, causando un notevole aumento del numero di siti dove, a 10 anni, si evidenziava una perdita ossea ≥ 3mm. È molto importante notare come la perdita ossea marginale attorno agli impianti dopo 10 anni di follow-up fosse sempre di molto superiore rispetto agli elementi dentari adiacenti, dimostrando che il mantenimento degli impianti dentali sia meno predicibile rispetto a quello dei denti naturali, soprattutto nei pazienti parodontali.

La terapia implantare nel paziente parodontopatico - Ultima modifica: 2014-01-12T11:23:27+00:00 da fabiomaggioni

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